Davanti a un funzionario:
"Ora confessi la sua colpa"

Quarta puntata del racconto di Andrea Vitali «Documenti, prego». Nelle puntate precedenti il protagonista viene prelevato per un controllo da due agenti che gli chiedono i documenti. Al mattino si rende conto di aver sognato. Mentre va al lavoro un poliziotto lo ferma e gli chiede i documenti.

Sono esterrefatto. Mi viene quasi da ridere. Anzi, un mezzo sorriso mi sale in viso. Quello lo nota, mi dice che c'è poco da ridere.
Era solo un sogno, dico.
Un sogno?, fa lui.
Adesso mi guarda diritto negli occhi. Mi dice che sta finendo il turno, è stanco e non ha voglia di discutere. Mi dice che i documenti non spariscono in sogno.
Oppure vuol dire che a volte i sogni si avverano. In ogni caso non ha più tempo da perdere, a casa lo aspettano, gli piace fare colazione assieme alla sua famiglia, è uno dei rari momenti in cui riescono a stare tutti assieme, non lo perderebbe per niente al mondo, per nessuno. Poi dà una pacca sulla spalla all'autista e quello parte.
Di me, adesso, si occuperà un funzionario.
Sono le ultime parole che dice. Anche lui scompare da questa storia. Silenziosamente. Come in sogno. Dopo avermi consegnato.
Fu senza parole, infatti. Con un semplice gesto del capo. Dopo aver attraversato la città che conoscevo e essere entrati in una periferia a me sconosciuta, un'irragionevole sequela di palazzi, spensierate antenne e terrazzini privi di vita, stagioni come tapparelle alzate e abbassate.
Forse adesso stavo sognando, mi chiesi.
Ma arrivammo e senza parole, con un semplice gesto del capo, l'uomo in divisa mi fece capire che dovevo scendere e mi consegnò al funzionario.
Tra me e il funzionario c'erano sedici passi. Sopra, un cielo decisamente nuvoloso. Sedici passi e mi trovai nella stanza più anonima che avessi mai visto, nemmeno un quadro o un calendario o comunque un qualcosa alle pareti. E davanti alla figura dell'uomo più mite che avessi mai conosciuto: il funzionario, che principiò a parlare scusandosi innanzitutto per il disturbo che mi stavano arrecando.
Il funzionario porta occhiali dalla montatura leggera. Sono l'ideale per il suo viso. Il viso di un uomo che comprende. Comprende i disagi altrui.
Cominciò col dire così. Che comprendeva il disagio che mi avevano arrecato. Fui lì per dire che non era niente, davanti a tanta gentilezza mi sento disarmato, ma non riuscii a farlo, il funzionario frenò la mia lingua con un gesto della mano.
Mi lasci parlare, disse.
Quando un funzionario parla non bisogna interromperlo.
I controlli, disse, i riscontri effettuati su di lei hanno dato un esito negativo. Nulla risulta a suo carico.
Bene, dissi io.
Lui mi lanciò appena un'occhiata.
Tacqui.
Tuttavia, disse.
Mentre dice tuttavia i suoi occhiali scivolano sulla punta del naso.
Il funzionario li spinge lentamente al loro posto.
Tuttavia, riprende, come dire, aggiunge, insomma, si decide, il mio comportamento è risultato sospetto.
Andarsene così, senza attendere, come hanno fatto tutti gli altri, la fine del controllo.
Così si comporta solo chi ha qualcosa da nascondere, disse il funzionario.
Ma se non è risultato niente a mio carico, riuscii finalmente a ribattere.
Niente, è vero, disse lui. Niente che sia noto a noi.
E poi si trattava di un sogno, dissi, interrompendolo.
Il funzionario a quel punto piega la testa di lato. È un gesto che ha qualcosa di paterno. Lascia scorrere qualche istante di silenzio. Poi:
«Le vorrei dare un consiglio», dice.
A proposito della storia del sogno.
Già lo sapeva, gli era stata segnalata questa mia stravagante dichiarazione. Lui comprende che ciascuno si difende come può, ricorrendo alle bugie più inverosimili. Ma nel mio caso la situazione è davvero grottesca.
«Le pare un sogno questo?»
«Le sembro un sogno io?»
E il mio documento d'identità, se è sparito in sogno, come mai non era nel mio portafoglio questa mattina?
Vede, dice, insistendo con questa storia del sogno lei non solo rischia di sembrare un alienato. Piuttosto è come se volesse negare la nostra esistenza, la mia, quella del baffetto, quella dell'uomo in divisa che l'ha fermata questa mattina. E negando noi, nega ciò che facciamo per il bene di tutti, ciò che rappresentiamo. È grave, molto. Per questo mi sento di consigliarle vivamente di non parlare più di sogni e di pensare piuttosto a come chiudere questa vicenda.
«Se vuole dire a me, adesso», concluse il funzionario.
Si appoggia alla sedia, un gomito sul bracciolo, il pugno sotto il mento.
«Dire cosa?», chiedo io.
Prima di tutto, prima che il funzionario apra la bocca per parlare, prima ancora che sul suo viso compaia un'espressione di perplessità, sento il rumore della sua sedia che scricchiola. Un rumore reale, preciso. Che mi sembra di sentire anche adesso, camminando su e giù per questa cella quattro per quattro.
Poi il funzionario disse:
«Allora forse non mi sono spiegato bene o lei non ha capito».
Non perderà tempo in lunghi giri di parole, dice. Cercherà di essere il più chiaro possibile.
La colpa, dice.
Il reato.
Il motivo che mi ha spinto ad abbandonare il posto dove ero stato portato per un semplice controllo. È ciò che lui vuole, deve sapere. Poiché anche lui deve dare risposte. Non si creda che la vita di un funzionario sia semplice.
Mi viene il dubbio che questo sia il sogno, non l'altro. Capita di confondersi. Nel caso sia vero che stia sognando adesso, basterà una risposta qualunque per andare avanti, alla fine svegliarsi, fare il caffè, guardare il televideo eccetera eccetera. Mi viene da sorridere.
«Che colpa vuole che le confessi?», chiedo al funzionario.
Un omicidio, una rapina, uno stupro, una truffa.
Qualunque cosa pur di svegliarsi in fretta, farla finita, cominciare una delle solite giornate.
Ma il funzionario è lì, sulla sua sedia scricchiolante e dice no.
Dice che non devo prenderlo in giro. Che se credo di avere solo sognato ben presto mi accorgerò del mio errore. Che non gli serve una confessione fatta così, come fosse un gioco.
«Non andiamo alla caccia di finti colpevoli», dice.
Vogliamo sapere la verità.
«Quindi, se vuole, me la dirà», dice.
Mi dirà come, dove, quando e perché ha commesso il delitto del quale non siamo a conoscenza ma che l'ha spinta a fuggire dal luogo dov'era trattenuto per un semplice controllo.
Il più chiaramente, il più precisamente possibile, dice.
«Non posso permettermi di essere vago nei miei rapporti», e questo dipende anche da me.
«È evidente».
Da quello che dirò.
Per questo, se voglio, gli potrei confessare adesso quale reato ho commesso, perché l'ho fatto, in quale luogo è accaduto, a che scopo, che vantaggi ne ho tratto.
«Quanti più particolari mi darà tanto prima finirà il nostro colloquio», dice il funzionario.
«E poi?», chiedo.
«La giusta pena», risponde lui.
Dopodiché, pagato il debito, tornerò a essere un uomo libero.
La pena è già dentro di me. Perché ormai non so più quale sia il sogno e quale la realtà. Poco fa chiudevo la porta di casa. Ma parcheggiavo anche nella piazzola di un autogrill.
La pena sono mia moglie e mio figlio.
Dormiranno ancora?, mi chiedo.
Che ore saranno, non ci sono orologi alle pareti.
Tuttavia, interviene ancora il funzionario.
Tuttavia, e interrompe i miei pensieri.
Tuttavia se non me la sento di farlo subito, di parlare adesso, con lui, dice, abbiamo dei moduli che la possono aiutare.
Solo con se stesso sarà più libero di ragionare, più tranquillo, dice.
Si rende conto che questi interrogatori possono mettere in difficoltà chi non è abituato.
«Allora, cosa decide di fare?», chiede.
Poi fa il gesto di guardarsi il polso, come se volesse controllare che ora è. Nemmeno lui però porta orologi.
«Mi dia questo modulo», rispondo.
Il funzionario mi guarda.
«Ma cosa ha capito?», chiede. (4. continua)


Andrea Vitali

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