Ciampi, la politica
che non c’era stata

Sul fatto che nel panorama politico italiano, Carlo Azeglio Ciampi, sia stato un caso eccezionale, nel bene e anche nel male a volte, possono concordare tutti. Persino Salvini che non ha perso l’occasione della scomparsa del presidente emerito della Repubblica per steccare fuori dal coro. E la conferma dell’eccezionalità di Ciampi si trova anche nel fatto che la sua elezione sia stato un capolavoro politico di Massimo D’Alema, che poi non è che ne abbia azzeccate più tante. All’epoca (1999) presidente del Consiglio, l’attuale leader del fronte del no al referendum riuscì a raccogliere attorno al suo ministro degli Esteri un consenso politico talmente vasto da far scaturire la “fumata bianca” al primo turno. L’unico precedente era quello di Cossiga con Ciriaco De Mita nei panni di “deus ex machina”. Ma quella era la Prima Repubblica, mentre Carlo Azeglio Ciampi traslocherà nella storia come uno dei personaggi chiave della Seconda. Fu proprio lui, a inaugurarla di fatto quando lasciò Bankitalia per approdare a Palazzo Chigi in piena Tangentopoli, anno di (dis)grazia 1993 . Fino ad allora, infatti, l’Italia non aveva mai avuto un presidente del Consiglio non parlamentare ed estraneo alla partitocrazia, più che mai screditata all’epoca, quando gli avvisi di garanzia ai politici andavano via come il pane.

E il debutto di Ciampi alla guida di un governo per la prima volta con ministri dei Ds, partito erede del Pci, segnale di forte discontinuità con il passato, avvenne con le immediate dimissioni di questi personaggi, imposte da Occhetto dopo l’agghiacciante votazione del Parlamento sull’immunità di Bettino Craxi. Ma Ciampi non si lasciò scoraggiare, tenne duro e l’Italia scoprì un protagonista diverso dai suoi predecessori. Chi pensa sia facile passare dal mondo economico a quello politico si è dimenticato di Mario Monti. Ciampi ci riuscì alla grande. Perché proveniva da una cultura politica che era qualcosa di inedito nel panorama italiano. Lui, infatti, aveva militato in un partito attivo durante la Resistenza ma scomparso subito dopo. Era una forza politica composta da intellettuali laici di grande spessore culturale e rigore morale: il partito d’Azione. Terminata l’esperienza della liberazione, alcuni di questi azionisti si erano trasferiti in altri partiti, soprattutto in quello repubblicano. Altri come Ciampi avevano scelto altre carriere, portandosi però dietro i Dna del partito d’Azione. Per la prima volta, quando Scalfaro fu costretto a cercare al di fuori dal “palazzo” qualcuno in grado di formare un governo che potesse reggere alla tempesta di Tangentopoli, la cultura politica azionista trovava un’applicazione pratica. Una politica che non c’era stata prima e non ci sarà più dopo.

Ciampi non venne meno ai suoi principi, sia nella sua vita nelle istituzioni economiche sia nell’altra quella politica. Commise degli errori. Gli si rimprovera una manovra sulla lira che costò 63 miliardi (più di 30 milioni di euro) dell’allora moneta, così come, ma a posteriori, l’ingresso dell’Italia dell’euro.

Il sito Dagospia, ieri, ricordava anche che fu lui, dal Colle, a promulgare la famigerata riforma del titolo V della Costituzione, varata in fretta e furia da un centrosinistra raffazzonata che sperava di rivitalizzare l’imminente campagna elettorale con una spruzzata di federalismo. Quella legge in realtà ha generato, fra l’altro, le spese pazze delle Regioni finite in tante inchieste giudiziarie.

Da capo dello Stato Ciampi, esternò meno del suo predecessore, Scalfaro e anche del suo successore Napolitano, ma improntò la sua azione nella rigorosa difesa dell’unità nazionale messa e repentaglio da una Lega mai così forte e determinata. La famosa marcia sul Po per la secessione voluta da Bossi ci fu proprio durante il mandato di Ciampi. Forse per ribadire che l’Italia è una e indivisibile, il capo dello Stato visitò tutte le province del territorio nazionale, riuscendo a farsi amare dalla gente. Forse nessun inquilino del Colle, a parte Luigi Einuadi, fu meno divisivo di lui.

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