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Sabato 03 Gennaio 2009
«E’ vero, la scuola è disastrata
Ma noi prof dobbiamo reagire»
Fabio Pusterla, poeta e insegnante ticinese, ha pubblicato un libro di riflessioni sulla sua professione. Racconta anche di un collega comasco ostaggio dei bulli. «Ma io in classe mi diverto ancora»
Una recente ricerca dell’osservatorio lombarso sul bullismo, dice che le prevaricazioni contro i prof avvengono in in istituto comasco su 5. Come vede la situazione dal suo osservatorio “privilegiato”?
Non credo che il mio sia un osservatorio privilegiato; credo invece che, se la ricerca sul bullismo dice la verità, come temo, la scuola italiana sia disastrata. Mi pare si debba partire da questa constatazione: se la scuola non funziona, bisogna tentare di farla funzionare. Ogni tanto, invece, ho paura di cogliere una reazione diversa, fatalistica, che sembra ritenere inevitabile e quasi desiderabile la catastrofe. Alla luce di questa reazione, le eventuali realtà un po’ diverse e forse un po’ migliori appaiono semplicemente desuete, arretrate o, appunto, privilegiate. Detto questo, posso subito aggiungere: nella Svizzera italiana le cose non sono ancora giunte a questo punto, è vero; ma ci sono segnali inquietanti, che fanno temere il peggio.
La scuola italiana potrebbe imparare qualcosa da quella ticinese?
Le ragioni per cui stiamo un po’ meglio sono moltissime, credo. Intanto, le diverse dimensioni del paese; poi, il fatto che, nonostante tutta una serie di franamenti recenti e preoccupanti, in questo piccolo paese non è andato ancora del tutto smarrito il senso del bene pubblico, del bene comune, su cui poggia grandemente la scuola. Un altro aspetto fondamentale riguarda le condizioni di lavoro degli insegnanti: per quello che ne so, un insegnante italiano è pagato malissimo, cosa che ha conseguenze evidenti e molto diversificate.
Qualche anno fa, inoltre, si è svolto in Ticino un confronto politico cruciale, che ha avuto un esito molto diverso da quello manifestatosi più o meno nello stesso periodo in Italia: una votazione popolare ha definitivamente sancito il primato della scuola pubblica rispetto a quella privata, che è naturalmente ammessa e ragionevolmente sostenuta, ma che non può godere, come avrebbero voluto i suoi sostenitori, di un analogo sostegno finanziario statale. Affermare la centralità della scuola pubblica significa ovviamente anche assumersi la responsabilità di metterla nelle condizioni di funzionare egregiamente; al contrario, aprire allegramente le porte al privato vuol dire svalutare neppure tanto implicitamente il servizio pubblico, e creare in prospettiva livelli qualitativamente molto diversi di educazione e di formazione.
Nel suo libro parla di colleghi che fuggono dalla scuola o che cadono in depressione: mai corso il rischio di finire in quella schiera?
A tutti, penso, capitano momenti di difficoltà, di stanchezza e di scoraggiamento; sono capitati anche a me, certo. Però finora non ho mai raggiunto il livello di guardia, e nel complesso continuo a divertirmi molto insegnando. Ma devo aggiungere di essere forse un caso un po’ particolare: faccio l’insegnante, ma nel tempo libero mi occupo da molti anni di letteratura, di critica, di traduzioni. E se questo comporta probabilmente una certa dose di fatica, poter suonare due musiche diverse mi aiuta probabilmente a non lasciarmi inghiottire né dall’una né dall’altra, mantenendo la giusta proporzione delle cose. D’altra parte, e qui si torna al discorso fatto prima: da molti anni ho anche deciso di lavorare a tempo parziale, rinunciando a una fetta di stipendio per aver più tempo da dedicare allo studio, alla scrittura e alla famiglia. Per fare una simile scelta, è però naturalmente necessario che lo stipendio, anche ridotto, si mantenga a livelli dignitosi.
Il contatto quotidiano con gli adolescenti regala delle “gocce di splendore”… solo a chi le sa cogliere, però. Le capita ancora?
Sì, mi capita, e ogni volta ne sono sorpreso. Alcuni aneddoti li ho raccontati ogni tanto in qualche pagina del libro, e non lo rifarò qui, perché mi parrebbe di violare una specie di intimità che talvolta si può creare tra lo studente e l’insegnante. In qualche caso l’origine di tale intimità è qualcosa di bello; più spesso un disagio, un problema, un malessere che vuole essere detto a qualcuno, e che in certe situazioni dà poi origine a un rapporto di eccezionale intensità. Magari brevissimo, eppure intenso e indimenticabile, almeno per me.
La carenza di letture è, a suo parere, un problema non soltanto dei ragazzi, ma anche dei politici, compresi quelli che magari vogliono riformare la scuola. «Studiate di meno, leggete di più», propone provocatoriamente. Cosa significa?
Studiate di meno, leggete di più: così ho scritto e così riscriverei senz’altro. È una provocazione? Certo. Ma vuole anche dire: se lo studio imposto dalla scuola non avvicina gli studenti alla lettura, o addirittura li allontana da essa: che razza di studio è? Che senso avrebbe allora la scuola? E siccome questo avviene, purtroppo, con una certa frequenza, io credo che ciascuno di noi debba reagire. Come insegnante, reagisco parlando di libri con entusiasmo e, spero, con un po’ di competenza, cercando di accendere la curiosità nei miei studenti. In qualche caso, per tentare di convincerli, faccio anche cose molto discutibili: per esempio, spiego loro (che mi guardano con aria un po’ scandalizzata e un po’ divertita), come si fa a rubare i libri. Quando sono stato uno studente, ho reagito leggendo il più possibile, rivendicando il mio diritto di leggere. E se questo diritto non mi veniva riconosciuto, me lo prendevo da solo: a scapito, se proprio era necessario, di quello "studio inutile" che una parte della scuola tentava di impormi. Quanto ai politici, e agli adulti in genere, così preoccupati delle scarse letture dei loro figli e dei giovani: se davvero volessero, potrebbero fare molte cose a favore della lettura. Per esempio, potrebbero comperare dei libri, e persino provare a leggerli, ricordandosi magari di spegnere prima la televisione e il cellulare.
Già, gli adulti... In Italia pare che i genitori siano uno dei problemi maggiori della scuola, tant’è che è stato da poco istituito il patto di corresponsabilità scuola famiglia per richiamarli ai propri doveri educativi. Lei come la vede da insegnante-genitore?
Non penso si possa fare un discorso generale su questo argomento, e certo non sono in grado di farlo io. Penso però che la scuola sia oggi stretta in una morsa terribile, che minaccia di stritolarla. Da una parte, si tende a riversare su di essa i compiti che tradizionalmente venivano assunti dalla famiglia e dal gruppo sociale; dall’altra, si tende a considerarla sempre di più una sorta di azienda pubblica, che deve produrre inevitabilmente i risultati sperati e anzi pretesi come dovuti (voti positivi, diplomi assicurati, ecc.). In queste condizioni, la scuola si difende, si sente assediata, e prima o poi dovrà cedere, se già non l’ha fatto. Vale il ragionamento che facevo all’inizio: crediamo ancora in qualche valore comune su cui costruire la nostra vita associata? Non è facile: per farlo, non possiamo certo contare sull’esempio della classe dirigente, che è troppo spesso di segno esattamente opposto; penso che un cambiamento, per quanto difficile, non possa che provenire dal basso delle nostre responsabilità individuali, che decidiamo di assumerci o di dimenticare.
Pietro Berra
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