La sanità che cura
non è un numero

Il punto più basso, al di là dell’intenzione di voler rendere responsabili e consapevoli i cittadini, lo si raggiunge con la carta che ogni cittadino lombardo dimesso da un ospedale, trova in mezzo ai referti: è il “conto” delle prestazioni erogate, con il quale la regione ti ricorda quanto ha speso per curarti.

Che le cure costino non è un mistero, ma che alla fine ti venga anche ricordato quanto sei “pesato” in termini economici sull’ospedale, non è certo un segno distintivo del profilo sociale e umano che le cure, tutte le cure, in ospedale come fuori, dovrebbero possedere. Eppure, come ha denunciato l’altro ieri il cappellano del Sant’Anna Carlo Merlo, oggi il modello è questo: l’ospedale e la sanità in generale sono visti essenzialmente come una questione economica, strutture “lette” con la lente del dare e avere, dello stato patrimoniale, del risparmio e dell’investimento.

Una denuncia forte eppure fondata, fin troppo, a cominciare da quando gli ospedali sono diventati aziende ospedaliere e lo stesso per i servizi di base, erogati dalle aziende sanitarie locali.

In tempi di crisi e di bilanci da ridurre all’osso, l’atto d’accusa di padre Merlo può sembrare azzardato. Ma non lo è quando i medici in prima persona e gli infermieri sono costretti ogni giorno a fare i conti più con i budget che non con le diagnosi, a tenere d’occhio i giorni di degenza piuttosto che la relazione, anche umana oltre che professionale, con il malato.

A rimetterci, sia chiaro, non è la prestazione professionale, la capacità di cura, ma il rapporto che ogni medico o paramedico deve avere con l’ammalato, un tempo definito “paziente”. Così in corsia irrompono ormai altre “diagnosi”: quelle sui tempi, sui costi, sui risparmi, sulle presenze e sulle assenze, la razionalizzazione è il verbo che governa i reparti.

Il senso di chiamare gli ospedali “aziende” sta tutto qui e parte dal principio che la sanità non può essere un pozzo senza fondo dove spariscono tra sprechi e inefficenze montagne di soldi. Però non va dimenticato che la finalità in questo caso è del tutto diversa da quelle delle aziende tradizionali: il profitto, in questo caso, è la cura e la salvezza degli esseri umani, un obiettivo che non deve essere certo inserito in alcuna colonna di un bilancio d’impresa. Ecco perché la sanità di oggi deve guardare certo i conti, ma senza perdere per strada il senso sociale e umano della sua missione. Che è fatta di somministrazione di medicine, diagnostica e interventi, ma anche e soprattutto di dialogo, parole, consigli e un rapporto che non sia governato dai numeri. Bene quindi le spending review quando eliminano i buchi neri dei conti, però si restituiscano a medici e paramedici i tempi e i modi per incontrare il malato, non ridurlo a fattore di spesa come il “conto” della Regione rammenta. Nessun esame, nessuna visita supplementare, nessun minuto in più trascorso accanto a un letto dove c’è sofferenza sono soldi o tempo buttati. Il ritorno non sarà economico, bensì umano, di una vita strappata al male e confortata nell’animo. Questo andrebbe scritto in fondo al “conto” finale.

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