Modelle filiformi e scarpe piedistallo
In alto per uscire dalla crisi

Tacchi e zeppe trampolo da venti centimetri per respirare al di sopra dei grattacapi economici e ritrovare il buon umore con l'eleganza

Guardare in alto per non cadere in basso. Staccarsi  da terra per non finirci sotto. Distacco, eleganza e un piedistallo sotto ai piedi.
Anche un paio di scarpe possono servire per uscire dalle nuvole dei pensieri tristi, della vita che costa troppo, della gente che perde il lavoro, del Paese che arranca. Un paio di scarpe, carissime, altissime, pericolosissime, per sopravvivere e ritrovare la speranza. Slancio, coraggio, equilibrio. Una scarpa come metafora di quel che serve per uscire da questo pantano di sfiducia. Volare su un sandalo Ferragamo per non crollare sotto la crisi Alitalia. Stare su due zattere Prada per non affogare nel caro spesa. Ancheggiare su un trampolo Jil Sander per sentirsi una pin up. In alto, sempre più su, anche a costo di stortarsi una caviglia come è successo alle modelle sulle passerelle.

<+G_TITOLINI>TACCHI ANTI CRISI
<+G_TONDO>Cos’è mai uno scivolone, in una vita in caduta libera. Niente, solo il tempo di darsi una spolverata alla gonna e assicurarsi che nessuno abbia assistito alla scena. Meglio rischiare, che starsene giù, in quella nebbia da inquinamento umorale che neanche l’aria della Cina alle Olimpiadi.
In alto, che solo una donna (o uno stilista che disegna le scarpe per lei) sa quale ebbrezza dà salire su un gradino, tacco 18, suola rossa di Louboutin. Faranno anche male ai piedi, ma esaltano lo spirito e questo serve, che le donne pensino a frivolezze che con l’umore per terra ci stanno già gli uomini e se sparisce il rosa dalla vita, resta solo il grigio.
La propone Versace, un sandalo chiuso giallo canarino anche se è inverno e l’estate è stata chiusa a chiave dal maltempo. Un sandalo giallo con tacco infinito sotto a un abito micro. Si accorcia la gonna, si allunga la gamba.
Scarpe ascensore. La ostenta Louis Vuitton, con un décolleté che è una zeppa e anche un tacco a spillo. Prima era il tacco 12, il gradino dell’eleganza. Adesso il 12 passa quasi per ballerina. Si sale, al 15, al 18. Al 20. Una donna alta 1 e 60 che fa l’effetto di una stangona di un metro e 80.

<+G_TITOLINI>scheletri in passerella
<+G_TONDO>Effetto snellente anche per chi non è scheletrica come le modelle delle ultime passerelle, quelle sì in linea con la crisi, non tanto di chi non arriva a fine mese quanto di chi vorrebbe sparire per non sentire più gente infelice. A certi livelli di sottopeso, non conta più l’essere magre per essere belle. C’entra solo la voglia di annullarsi, di consumarsi, di farsi male. Corpi da lager. Mucchi di ossa per protestare contro la vita e uno sguardo perso nel vuoto che guarda già oltre. Più che un panino con il salame, servirebbe un dottore per curare l’anima di queste ragazze usate come attaccapanni ma svuotate come un guscio di noce. Lo psicologo non dovrebbe entrare solo nel dietro le quinte, ma anche nei backstage. Anche se spesso non è un problema di volontà, ma di ordini. «Taglia 38 o non sfili». Le pentite della moda come Carrè Otis hanno confessato che potevi essere bella finchè volevi, ma se non eri abbastanza magra venivi sgridata. Dipendenze da alcol e droga o bulimia non erano problemi da risolvere, ma semplicemente sistemi per non ingrassare. E pazienza se la strada era quella dell’autodistruzione. Si sono indignati tutti, lo scorso anno, per quei manifesti alla magrezza che sfilavano in passerella. «Così ci rovinate intere generazioni di ragazze -aveva lanciato l’appello l’ex ministro Melandri -. Non fate salire in passerella modelle anoressiche». Passa un anno, punto a capo. Certi defilè sembrano raduni di malate di ospedali psichiatrici, eserciti strappati ai corridoi per disturbi alimentari, ben vestite e ben truccate, certo, ma sempre malate. Di un male che perfino la campionessa olimpica Federica Pellegrini ha conosciuto da giovane («Ho capito che non avevo più forza in acqua, e ho capito che dovevo iniziare a mangiare davvero»). Altro coro di indignazione e l’assessore alla salute del Comune di Milano, Giampaolo Landi di Chiavenna, che si lamenta: «Ma non ci avevano promesso mai più scheletri alle sfilate? Possibile che qui non cambi mai niente?».

<+G_TITOLINI>TACCHI A ROCCHETTO
<+G_TONDO>E allora bisogna corazzarsi per parare i colpi di questa vita con cappotti spalle larghe anni ’80, quando i soldi c’erano e i Paninari collezionavano Moncler e Timberland. Bisogna diventare altezzosi con i tubini anni Settanta, lo stile Chanel, la classe Dior e capelli cotonati che sanno di lacca e chiamano foulard di seta per tenere la piega.
Bisogna salire sulle zeppe e sui tacchi a rocchetto, che fanno tanto impero e non a caso ovunque, da Paul Smith a Paciotti, torna la scarpa Luigi XVI.
Gli stivali vanno di conseguenza, si alzano i tacchi, compare la zeppa sotto la punta e la gamba viene fasciata fin sopra al ginocchio come in un modello Guess. Nero lucido, nero laccato, coccodrillo nero. La perfezione della vernice, l’eleganza del cocco, la spavalderia del nero. Un inverno diverso dagli ultimi dieci, di sicuro. Più deciso, più incisivo, più aggressivo. Ma anche più divertente, più impegnativo, come i cappelli con le piume di Ralph Laurent che sembrano usciti da un film anni 50. Perfino Dolce e Gabbana esagerano con la collezione di kilt e mono quadrettato su uomo e donna. Una moda in cui perdersi come nelle vertigini dei maglioni Les Copains, giacche a righe su pantaloni alla marinara con quattro bottoni sulla pancia e la zampa larghissima anni Settanta.
Se il mondo va a rotoli, non val la pena lasciarsi morire di fame. Bisogna uscire e combattere con tacchi esagerati, sotto a tubini incantevoli. Poco male se non vanno bene per fare la spesa. Importa che elevano l’autostima. Perché come diceva la principessa Margaret: «It’s so lovely to be me». È la formula segreta per essere felici qualche volta passa anche da un tacco esagerato, da un tubino Jacky O o da un abito alla Grace Kelly in Caccia al ladro.
Anna Savini

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