"Il made in Italy è fatto in Cina
E i piccoli soffocati dalle griffe"

L'accusa dell'amministratore delegato della Manufat, azienda tessile di Inverigo. "Nessuno lo dice perché sono le grandi maison di moda, ma la concorrenza che arriva viene spacciata per italiana"

Como - Il «made in Italy»? In gran parte è prodotto in Cina. Nell’abbigliamento, però, si ometterebbe l’applicazione della classica etichetta di fabbricazione, proprio con l’intento di non dichiarare la provenienza del manufatto. Più del made in Italy, per i marchi importanti della moda italiana, è diffuso il made in China. A denunciare questo fenomeno è Franco Di Raimondo, amministratore delegato della «Manufat», azienda di intimo con sede e produzione ad Inverigo, impresa stritolata da una concorrenza estera «spacciata» per italiana. Spiega ancora Di Raimondo: se la linea destinata all’alta moda è prodotta ancora in Italia, per le seconde linee, i prodotti distribuiti a tutti, invece ci si avvarrebbe di manodopera di Paesi con un minore costo del lavoro. Facendo leva sulla fama della maison, riconosciuta a livello internazionale come rappresentante dell’Italia, ci si «dimenticherebbe» poi di scrivere il luogo reale di confezionamento del capo. «In realtà nessuno di questi grandi marchi - riprende Di Raimondo -, e neppure dei più piccoli dice il falso; nessuno scrive prodotto in Italia. Semplicemente non lo scrive, in questo modo fa pensare l’acquirente che il manufatto sia autoctono, invece, arriva da lontano», spiega Franco Di Raimondo. Si parla anche e sopratutto di grandi firme dell’alta moda: «Ancora più facile in questo caso spacciare il prodotto per italiano, grazie alla riconoscibilità dei marchi. Gran parte dei prodotti di alta moda italiana commercializzati sono in realtà realizzati e prodotti in altri Paesi». Non è solo un problema di etichetta, c’è anche la qualità scarsa di materiali e di lavorazione: «Se prendiamo e analizziamo una maglietta di una griffe importante, per prima cosa non troviamo indicato in alcun modo il paese in cui è stata realizzata. Se poi andiamo a guardare la qualità c’è da mettersi le mani nei capelli - prosegue Di Raimondo -. Siamo di fronte ad un prodotto di basso costo: in Italia c’era una zona di produzione nel barese, specializzata in capi di questo livello, costavano attorno alle due euro. Se prendiamo il prezzo in questo caso è però di 22 euro, in negozio. Uno potrebbe chiedersi: chissà quanto guadagna la griffe? In realtà di questi 22 euro io sono convinto che una buona fetta vada in pubblicità». Di Raimondo amplia il discorso al tipo di concorrenza creato con questo sistema: «Parliamo di regole, in Italia esistono, dove si realizzano spesso questi capi, no. Se io ho un competitor di Genova con produzione in città posso rapportarmi. Non è così con una fabbrica cinese. C’è poi anche l’aspetto economico, legato ai consumi interni: se il mio operaio lavora per produrre i miei capi poi avrà i soldi per comprare i miei prodotti o quelli della concorrenza, a sua scelta. Se invece non lavora, non avrà soldi, punto e basta». Per il comasco è il suo indotto, secondo Di Raimondo, questa concorrenza è un duro colpo: «Il nostro è un settore che va in malora. Nella zona di Cermenate qualche anno addietro c’era una ventina di tinto-stamperie, ora si contano sulle dita di una mano. Nel 1998 la «Manufat» aveva 180 dipendenti, ora siamo ad un terzo: sessanta. Non si può continuare così, dobbiamo darci reagire». L’amministratore delegato di Manufat, insomma, non ci sta a sentir parlare di importanza del mercato cinese per i marchi italiani, di export verso Pechino: «Ma quale export. I prodotti sono già lì, vengono prodotti sul posto. Volendo, è persino più onesto vendere in Cina, e creare lì indotto. Noi se vogliamo realmente esportare dobbiamo fare i conti anche con i dazi». Per la «Manufat» la produzione è invece completamente made in Inverigo: «Vengano a vedere, a capire cosa vuol dire cercare di lavorare sul territorio ora - riprende Di Raimondo -. C’è una proposta di legge per la tutela del marchio made in Italy presentata alla Camera. Ma non credo verrà approvata».
Giovanni Cristiani

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