Sartoris e Marinetti
Un'amicizia di frontiera

A 10 anni dalla morte dell'architetto svizzero-comasco, se ne rilegge l'eredità
Il padre del Futurismo inviò al progettista l'ultima lettera: eccola in anteprima

Sono trascorsi dieci anni da quando, l’8 marzo 1998, l’architetto Alberto Sartoris è spirato a Cossonay-Ville (Losanna) nella sua casa-laboratorio, adibita ad archivio dell’architettura contemporanea, poi trasferito al Politecnico di Losanna. Due mesi dopo il suo repentino decesso a 98 anni, si apriva nella sale della Pinacoteca comasca la mostra a lui dedicata. Un altro appuntamento mancato, purtroppo, per lui che desiderava molto presenziare a questa mostra programmata anni prima, se non altro per ricordare degnamente gli anni del fervido sodalizio con Giuseppe Terragni.
Ora ci si appresta a ricordarlo con un incontro di studio, per iniziativa del sodalizio intitolato a suo nome e costituitosi nel 1999 in Svizzera. Dieci anni non sono molti: eppure già occorre riattivare l’attenzione sull’attività di Sartoris, non solo architetto, ma anche teorico, storico dell’architettura e critico d’arte. Sarà un’ulteriore, importante occasione per riconsiderare la personalità di uno dei massimi rappresentanti in Europa del Movimento Moderno, come l’esposizione di Como aveva indicato ponendo l’accento sui presupposti teorici di ciò che venne definito "funzionalismo" soprattutto da colui che credette sempre nella legittimazione attuativa della forma nel progetto architettonico: forma pura, assoluta, capace di per se stessa di rappresentare la necessità, l’essenzialità dell’architettura in tutte le sue destinazioni, dalla casa per abitare al palazzo per uffici, al monumento, alla fabbrica.
La mostra di Como diede perciò al progetto sartoriano un valore che andava oltre il semplice impianto progettuale, lo considerò nella sua essenza e nel suo valore comunicativo come un "manifesto" del razionalismo, vale a dire come una cosciente esemplificazione dei presupposti generativi di una fra le più incisive tendenze dell’architettura del ’900. Nella teoria e nella pratica, con un’accentuazione della prima rispetto alla seconda. Sartoris fu un lucido, rigoroso teorizzatore, che per tutta la vita riflettè su quelli che considerava i principi inderogabili dell’arte del proprio tempo, in cui l’architettura era allineata accanto alla pittura e alla scultura con la stessa dignità rappresentativa: principi di ordine, di armonia, di chiarezza. Non un rispecchiamento della vita, ma un modo per darle senso, anima. Credette nella capacità sovrana della mente di governare il mondo, ma non senza lo spirito di pace, di fratellanza che lo rende degno di essere abitato dagli uomini. Qui, in questo idealismo che assume una forma e acquista una visibilità attraverso una nitida articolazione di linee, si manifesta la lezione di Sartoris, coerente ed entusiasta malgrado la difficoltà di farsi valere, di trasformare in compiute realizzazioni dei progetti già "costruiti" sulla carta in proiezioni ortogonali che hanno una plastica evidenza, una concreta "presenza" fisica e pure sembrano librarsi in uno spazio di aerea levità senza confini. Concetti che non sfociano in mere astrazioni, ma in ipotesi esecutive. Le proiezioni ortogonali sono moduli progettuali inventivi e pratici, così perfette, così esattamente calcolate da apparire ad un primo sguardo frutto di elaborazioni meccaniche ed invece erano tracciate a mano con inchiostro di china e l’ausilio di semplici righelli.
Anche questa commistione fra abilità manuale e calcolato controllo delle proporzioni, dei rapporti e delle distanze, fa parte del metodo operativo del maestro razionalista, della sua "modernità" di stile, come ha sottolineato un significativo intervento di Vittorio Gregotti. «Sartoris è stato uomo del Movimento Moderno - ha osservato Gregotti - perché fu nello stesso tempo sperimentatore nell’architettura e nelle arti visive, protagonista dei metodi del razionalismo, polemista, conferenziere, estensore all’inizio degli anni Trenta di uno dei libri più diffusi di raccolta di esempi della nuova architettura, fondatore del Ciam (Congrès International d’architecture moderne) ed a contatto aperto con tutti i movimenti d’avanguardia d’Europa. Proprio il suo internazionalismo europeista lo fa partecipe di quella cultura delle avanguardie politiche ed artistiche di cui la Svizzera fu il crocevia nei primi trent’anni del XX secolo». Internazionale perché indipendente, svincolato dall’appartenenza a gruppi e schieramenti politico-culturali, in grado di recepire quanto di più avanzato avvenisse nel mondo dall’osservatorio elvetico, che gli servì molto per intessere una rete di conoscenze con artisti di vari Paesi. Ma non rinunciò mai a sentirsi e professarsi italiano, al pari di Filippo Tommaso Marinetti, arcitaliano internazionalista: e il suo approccio al futurismo fu condizionato appunto da questa duplicità di posizioni e dall’insopprimibile bisogno di sentirsi libero. «L’attivismo futurista ed anarchico - ha annotato ancora Gregotti - si erano in lui mescolati all’idea dell’ordine razionale ed alle prospettive di liberazione sociale con cui poteva essere interpretata la civilisation machiniste», il progresso di una civiltà industriale sorretto da una solida coscienza morale e dalla consapevolezza dei valori umani.
Il riesame dell’opera di Alberto Sartoris che ora dovrà essere avviato non può certo prescindere dall’impalcatura utopica che l’animò e la sorresse, dal sogno di una società più giusta e armoniosa condotto senza cedimenti, fino agli anni di una vecchiaia sorprendentemente vitale, attiva e propulsiva. Un sogno in gran parte rimasto tale, ma non per questo meno generoso e ricco di fermenti creativi che non hanno esaurito la loro carica testimoniale.
Alberto Longatti

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