Ucciso al bar, parla la vedova:
"Un bravo papà e un buon marito"

«Il progetto di mettersi in proprio era un sogno per ora - racconta Teresa -. Non facevamo mai il passo più lungo della gamba».

CADORAGO - Due ragazzi di vent’anni senza un soldo in tasca. Lui, figlio di agricoltori, arriva da Cicala, provincia di Catanzaro, in Calabria. Francuzzo lo chiamano. Lei lo vede, se ne innamora e decide che è l’uomo che fa per lei. È il 1995 quando Franco Mancuso (l'uomo ucciso in un bar di Bulgorello di Cadorago)  e Teresa si sposano. Un appartamento in affitto per cominciare. Una vecchia casa comprata con un mutuo e ristrutturata nei fine settimana a colpi di calce e scalpello per continuare. E una nuova casa un po’ più grande per crescere i figli quando arriva il terzo, che ora ha solo sette mesi.
L’inizio della famiglia Mancuso è così, due ragazzi senza un soldo che sognano una famiglia. La fine è una donna di 33 anni, con i capelli corvini, jeans e maglietta nera e una famiglia che deve mantenere da sola. Niente trucco. Niente lacrime. Niente compromessi. È a casa dei suoceri: «A casa mia adesso non posso più stare. Chiudo gli occhi e vedo mio marito davanti. Non ce la faccio. Preferisco star qui in mezzo ai miei parenti, ma non parliamo davanti ai bambini. Hanno già sofferto abbastanza».

Teresa ha una sola storia da raccontare, quella di «un bravo papà e un buon marito che non ci ha mai fatto mancare niente». I soldi che portava a casa quell’uomo arrivavano dal sudore e dalla fatica. Dai chilometri sul camion e dalle levatacce per andare a Milano o Bologna, senza trovare traffico, o dovunque lo portasse il suo mestiere di autista.

«Il progetto di mettersi in proprio era un sogno per ora - racconta la vedova -. Non facevamo mai il passo più lungo della gamba». E il fratello interviene per fare un esempio:«Servivano mille euro per l’apparecchio del bambino e mio cognato era un anno che faceva straordinari per poterlo pagare». È una famiglia che non ci concede neppure il lusso del dolore.

«Non posso essere debole. Poi magari piango tutta notte, ma non davanti ai bambini. Devo essere forte per i miei figli, devo crescerli. Devo farlo per mio marito, lui ai bambini, ci teneva. Devo farlo per amore».
Anna Savini

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