Allievi: «Nessuna retromarcia
sul professionismo nel basket»

Sotto la presidenza di Lega del canturino Roberto Allievi, 25 anni fa il passaggio della serie A alla legge 91. «Alla luce della crisi mi rendo conto delle attuali perplessità, ma resta indispensabile in un contesto di trasparenza»

Acute riflessioni in particolare sul professionismo e sugli effetti della legge Bosman nella pallacanestro sono state affidate nei giorni scorsi da Roberto Allievi alla Lega Basket.

Sotto la presidenza della stessa Lega da parte del dirigente canturino vi fu infatti nel 1994 il passaggio al professionismo con l’applicazione alla serie A della cosiddetta “legge 91”, sull’esempio di quanto già era avvenuto in altri sport come il calcio, il ciclismo, il motociclismo e il pugilato. Quel regime professionistico che, 25 anni dopo, viene ora guardato in cagnesco da molti club del massimo campionato, costretti a dover fare i conti con bilanci sempre più smagriti.

E allora vale la pena approfondire l’argomento lasciando appunto la parola allo stesso Allievi. «Con il senno di poi e alla luce della situazione attuale, mi rendo conto delle perplessità che quella nostra svolta può suscitare in alcuni club che si reggono solo sulle sponsorizzazioni e sugli incassi - confessa -. Eppure quel passaggio fu inevitabile in un momento in cui il basket era in una fase di grande crescita, avvicinava proprietari di importanti aziende e vedeva affacciarsi le multinazionali nell’ambito delle sponsorizzazioni. Insomma, la pallacanestro di alto livello si doveva rapportare con questi nuovi preziosi interlocutori in modo più aperto e credibile. Ciò che ora rischia di rappresentare un pesante fardello, a quel tempo era invece una necessità. Quei costi supplementari richiesti ai club, in quel periodo non costituivano un problema, mentre ora non è più così perché il basket soffre di scarsa visibilità, soprattutto televisiva, e gli spazi sui quotidiani nazionali si sono contratti e non sono più quelli di un tempo».

Insomma, quello era un movimento in salute che si dava un nuovo status, mentre l’attuale è un movimento per la maggior parte di retroguardia.

«Ribadisco - puntualizza Allievi - era necessario ad esempio avere maggiore chiarezza nel rapporto con i giocatori con cui fu siglato un nuovo accordo che dava loro maggiori garanzie ma che tutelava anche i club prevedendo doveri e adempimenti ben precisi da entrambe le parti. E le società dovevano finalmente sottoporsi alla certificazione dei bilanci da parte dei revisori. La verità, tuttavia, è che la “Bosman” non c’era ancora e quando è intervenuta l’ha fatto a gamba tesa su tutto lo sport professionistico».

E proprio il caso di Cantù, in quest’ottica, è il più paradossale. «Proprio così. La nostra politica societaria era incentrata sulla crescita dei giovani, con i più bravi da inserire in prima squadra e gli altri da girare ad altri club, monetizzando. Così da rientrare dagli investimenti fatti sui vivai. Il giocatore rappresentava un capitale che è crollato a seguito dell’introduzione della Bosman e la conseguente abolizione del vincolo. Insomma, finivi con lo spendere ingenti risorse e non ti ritrovavi più nulla in mano».

Ma può la pallacanestro di serie A tornare indietro di 25 anni e abbandonare per strada il professionismo? «Non credo. In un basket che deve riprendere a crescere, trovando strumenti in termini di progetti, immagine e idee, il professionismo riveste un ruolo centrale. Perché significa trasparenza, credibilità e sostenibilità dei bilanci. E se vuoi rapportarti con le grandi aziende il tuo approccio deve essere tale da non poter essere contestato».

«Piuttosto - puntualizza -, andrebbe rivisto il contesto economico-fiscale che attualmente in Italia è poco favorevole e penalizzante nei confronti di altre realtà europee. Servirebbe che l’intero movimento continentale si uniformasse per poter gareggiare ad armi pari».

© RIPRODUZIONE RISERVATA