Brienza: «Io resterei a Cantù
Ma bisogna parlarne insieme»

Il coach a ruota libera dopo aver fatto molto bene a Cantù: «Jefferson e Gaines come mamma e papà per questa San Bernardo»

Coach Nicola Brienza, dopo averci dormito sopra una notte, qual è all’indomani il suo stato d’animo dopo aver visto sfumare i playoff negli ultimi secondi dell’ultima giornata di regular season

Dormito?

Non ho chiuso occhio, in realtà...

Brucia ancora?

Mi sento come uno che fa bungee jumping, si lancia e poi si accorge che non aveva attaccato l’elastico...

La vittoria di Trento a Brindisi vi ha fulminati.

Avevo chiesto di non essere aggiornato del risultato di quella partita. Poi quando a metà dell’ultimo quarto Sassari ha confezionato il break di 13-0 e ho percepito che non ne avevamo più mi sono girato verso Diego (Fumagalli, il team manager) che era l’unico di noi a essere informato. Mi è bastato incrociare il suo sguardo per capire tutto. E mi è scappata una parolaccia.

Vi sono mancati due punti per centrare i playoff e allora uno subito pensa alla vittoria che avete buttato al vento a Venezia e che ora pesa tremendamente.

Andare a Venezia a vincere non può essere ritenuto normale per una squadra come la nostra. E lo stesso vale per la trasferta di Sassari dove pure abbiamo giocato una partita assai gagliarda.

Che intende dire?

Che i playoff li abbiamo buttati via in quella lunga serie nera del girone d’andata perché oltre a perdere abbiamo accusato passivi tali anche contro avversarie dirette che poi sarebbe stato difficile ribaltare. E così ci siamo trovati sotto in quasi tutti gli scontri diretti finendo per essere penalizzati nella classifica avulsa. Paghiamo anche lo 0-2 con Trieste: contro di loro a Desio abbiamo giocato la nostra peggior partita con me alla guida.

A proposito, il suo bilancio è di 9 vinte e 4 perse: con un passo del genere, altro che playoff...

Sono ipercontento e ipersoddisfatto del percorso fatto con la squadra. I ragazzi mi hanno sopportato e supportato e il merito è soprattutto loro perché sono i giocatori che poi scendono in campo.

Non è bastato neppure chiudere in testa la classifica relativa al girone di ritorno...

Perché, come dicevo, il guaio grosso l’abbiamo combinato all’andata. Nella seconda parte di stagione ne abbiamo vinte 11 su 15. Francamente più di così...

La partita per eccellenza della sua gestione?

Quella contro Brindisi perché al di là di un’avversaria estremamente competitiva, noi avevamo appena inserito Stone. E aggiungerei il derby con Varese, squadra di sistema se ce n’è una. E dunque per noi più ostica da interpretare.

Quella più deludente?

La più brutta è stata contro Trieste. Ma in quel caso la delusione era dettata dalla pessima settimana di lavoro che l’aveva preceduta.

La partita in cui sente di aver fornito il contributo più significato.

Mi ripeto: Brindisi e Varese.

E quella in cui ritiene di aver avuto maggior responsabilità in negativo?

Quando perdi a Venezia così come abbiamo fatto noi sei corroso dai dubbi. Perché prima ancora di quel maledetto fallo non speso sulla loro ultima azione devo ammettere che non è stata granché la gestione dei nostri ultimi possessi. In quel frangente non sono giunti messaggi corretti alla squadra.

La svolta della stagione sul campo?

Tecnicamente, l’arrivo di Carr perché oltre a essere un eccellente giocatore, per come piace a me allenare lui mi ha consentito di fare cose nuove e diverse.

Dove più ritiene si sia più notata la sua mano?

Nel provare a dare compattezza al gruppo nel momento di estrema difficoltà societaria.

A proposito, quando ha assunto le redini della squadra era consapevole che avrebbe anche potuto bruciarsi?

Quella paura c’era, l’ammetto. Perché è vero che in quei frangenti il senso di responsabilità e d’appartenenza ti sconsigliano di fare un passo indietro, ma quando poi pensi “e se va male che succede?” un tantino d’ansia ti viene.

Gli stranieri, chi più chi meno, hanno reso ma c’è stata troppo poca Italia in questa Cantù.

Vero, ma del resto la squadra era stata costruita deliberatamente così. La scelta di chi ha allestito il roster era stata quella di privilegiare gli americani affidando a loro praticamente tutte le responsabilità. E dunque è andata di conseguenza.

Gaines e Jefferson i due pilastri: tra i due chi è stato il top?

A loro una volta, scherzando ma neppure troppo, dissi che erano un po’ la mamma e il papà della squadra per personalità ed esperienza. E siccome sono uno molto legato alla famiglia, per me mamma e papà stanno sempre insieme e non ce n’è uno che si fa preferire all’altro. Scegliendo, invece, finirei per fare un torto all’uno o all’altro.

Accosti un temine a ciascun suo giocatore.

Gaines è la perseveranza, Carr il talento, La Torre la mentalità, Stone l’imprevedibilità, Blakes il guerriero, Parrillo e Tassone l’abnegazione, Davis il sognatore, Jefferson “il predicatore”.

Lei ha spesso rivolto pubblici inviti ai vostro sostenitori ad affollare Desio. L’ha fatto perché percepiva poca compartecipazione?

No, non è quello. Non potrei mai eccepire sui tifosi perché mi sono stati veramente vicini. È solo che nei due anni in cui sono stato via, da fuori si percepiva come il problema fosse Dmitry. Ebbene, nel momento in cui lui non c’è più stato e la società sta facendo l’impossibile per rigenerarsi, mi sarei aspettato qualche spettatore in più alle nostre partite. Anche perché, dopotutto, noi si vinceva e si era pure piacevoli da vedere all’opera.

Che ci anticipa del suo futuro: sarà ancora a Cantù?

Sin qui con la società è stata fatta soltanto una chiacchierata perché io volevo restare concentrato sul campo e il club sulla propria ristrutturazione. Ora ci si siederà con maggior serenità a un tavolo e si capirà che tipo di percorso si potrà eventualmente continuare a compiere o a intraprendere assieme.

Sensazioni?

Sarei contento di restare. Del resto, come potrei avere delle chiusure? Ma si deciderà soltanto di comune accordo, una volta che saremo tutti più sereni.

In chiusura, di prassi, i ringraziamenti.

Il mio grazie, ma non certo di prassi bensì fortemente sentito, va ai due miei collaboratori Ugo Ducarello e Antonio Visciglia. Due aiutanti che, al di là dell’aspetto tecnico, hanno contribuito a restituirmi serenità quando ero nervoso e ad alzare la tensione quando invece notavano che stava calando. Un apporto, il loro, preziosissimo.

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