Cantù, la confessione di Ebeling
«Invidiavo Zorro e litigavo con Dado»

A colloqui con il grande ex: «Ora faccio il ds a Ferrara in A2. Polti? Un gran signore»

«Sto invecchiando e dunque ho solo vaghi ricordi. Del resto ho girato così tante città e cambiato così tante squadre nel corso della mia carriera, che non mi posso rammentare tutto. Naturalmente scherzo, perché quella mia unica stagione a Cantù l’ho ancora ben impressa nel cuore e nella mente». John Ebeling, in Brianza nel campionato 1996-97, lo si ricorda oltre che come una brava persona, umile e coraggiosa, anche come un guerriero in campo. «Mi allenavo forte, non accettavo che il tempo passasse e così ci davo dentro per essere sempre al massimo della forma. Credo tuttavia che il mio impatto da quelle parti avrebbe potuto essere maggiore se solo fossi arrivato qualche anno prima e non con 36 primavere sulle spalle. Mi sono sempre dovuto guadagnare ogni singolo minuto giocato perché non ero un giocatore di talento. Se mi fossi fermato dieci giorni e mi fossi messo in costume in spiaggia, mai più chi mi osservava mi avrebbe scambiato per un atleta. Per questo ho sempre dato il 100% in ogni secondo. Amavo e continuo ad amare la competizione perché finisce sempre che mi accendo dentro».

Torniamo a quella “sua” Cantù, targata Polti. «Su tutto, la finale di Coppa Italia dopo aver battuto Milano nel derby di semifinale. Tanta roba e una goduria... Dopodiché, contro quella Virtus Bologna, e per di più a casa sua, era impossibile vincere e allungare le mani sul trofeo è così rimasto un sogno. Sono stato benissimo in quella squadra, anche se mi incazzavo con Zorro (Zorzolo, ndr), più che altro invidiandolo, perché lui partiva in quintetto e io ero solo il suo cambio. Inoltre, talvolta sento ancora Jerry (Reynolds, ndr) che ora fa l’allenatore in Florida, vicino a Tampa».

Lei, però, non andava molto d’accordo con coach Lombardi. «Vero, non mi vergogno ad ammetterlo. Quella volta poi che mi ha richiamato in panchina soltanto 17 secondi dopo la prima palla a due, poi... Due azioni, non avevo visto palla, non era successo niente e lui chiama cambio. Perché, gli domando? “Perché non ti ho visto pronto” la pronta replica. In 17”, capito? Ora ci scherzo su, ma allora mi arrabbiavo seriamente. Eppure, “Dado” ha tirato fuori il meglio di me. Non accettavo di fare il sesto uomo, più che altro non lo capivo. Più in là con l’età ho invece compreso e ora sto provando a insegnare certi concetti anche ai due miei figli che giocano a basket. E comunque, nonostante il rapporto conflittuale, al termine di quella stagione Lombardi andò ad allenare Reggio Emilia e il primo che volle con sé nella sua nuova avventura fui proprio io... Odio e amore! Poi il rapporto si ruppe egualmente dopo 5-6 mesi, ma alla base c’era qualcosa che non funzionava a livello strutturale nella squadra, non personalmente tra noi due».

Lei ebbe modo di conoscere anche un’altra personalità piuttosto forte quale il patron Franco Polti. «Conservo il ricordo di un signore. Di un gran signore. Anche se a fine stagione non riuscendo a scegliere chi tra me e il coach dovesse fare le valigie, finì che mandò via entrambi...». Molto più in là, stagione 2011-12, lei affrontò Cantù da avversario, ma in un’altra veste, quella di direttore sportivo della Scavolini Pesaro che diede un grosso dispiacere all’allora Bennet. «Nei quarti di finale playoff eravamo riusciti a pareggiare in casa lo 0-2 accusato al Pianella e a Cucciago andammo a giocare la “bella”. Vincemmo e approdammo in semifinale. Quella Cantù era forte, con Trinchieri - che ora ritengo tra i migliori 3-4 coach in Europa - che stava acquisendo fama. Ma pure noi non eravamo male. Tra l’altro la notte precedente la partita, con noi in ritiro all’hotel Arosio, ci fu il terremoto a Ferrara e mia moglie e i miei figli si riversarono in strada. Trascorsi una nottata agitata, fortunatamente il sisma non ebbe conseguenze sulla nostra casa né ripercussioni sulla mia famiglia».

Ecco, la sua famiglia con la bellezza di cinque figli. «Innanzitutto mia moglie Isabella, l’unica donna al mondo che poteva sopportare il sottoscritto per così tanto tempo e nel contempo tirar su praticamente da sola cinque ragazzi. Carol ha 30 anni e lavora all’ospedale di Ferrara, Gianmarco ne ha 24 e vive in Germania, Michele 21 e gioca in A2, Matilde 17 è studentessa, Bryan 14 ha fatto la terza media ed è il mio campione». In che senso? «Che oltre ad avere tanta “anima” ed entusiasmo per la pallacanestro è davvero bravissimo a tal punto che se non dovesse un giorno arrivare in Nazionale ne resterei scioccato».

Lei intanto si è ritagliato uno spazio dietro la scrivania. «Dopo il ds, per un periodo ho fatto anche l’agente (corrispondente per procuratori americani in Europa, ndr) ma non era il mio pane. Perché devi dire una cosa e poi farne un’altra. Così dall’anno scorso sono di nuovo dirigente a Ferrara». Una città che la ama, con il club che tempo fa ha ritirato la sua maglia. «Un gesto incredibile. Difficilmente mi commuovo, ma in quell’occasione ho ceduto all’emozione. Significa che ho lasciato qualcosa. E ancora oggi quella maglia è sempre lì appesa!».

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