«Cantù, lo spogliatoio B
è orfano del Pianella»

Allo scoperta dello staff e di un preziosissimo lavoro dietro le quinte

«Mi ero nascosto, ma mi hanno rispolverato. “Colpa” di mio genero (Andrea Mauri, l’amministratore delegato del club)... Tutto sommato, però, mi ha fatto piacere rientrare e sono felice di questa scelta. Poi quest’anno c’era anche Pancotto, con il quale ci si conosce da una vita». Definire Andrea Lanzi semplicemente il capo dei fisioterapisti della Pallacanestro Cantù è del tutto riduttivo. Perché prima di prendersi una pausa di riflessione e poi rientrare in occasione dell’ultimo cambio di proprietà, Lanzi aveva lavorato per qualcosa come 33 anni consecutivi ai muscoli e pure al cervello dei giocatori che si sono succeduti in maglia biancoblù. Fu lui uno dei fondatori del cosiddetto “spogliatoio B”. «Io, il dottor Giani (da anni ormai all’Olimpia Milano, ndr) e il preparatore Riccardo Carmina (ora, in pensione, protagonista ad alto livello tra i master della scherma, ndr) a voler essere precisi. Tanti, troppi anni fa. Poi si imbarcarono Bolognini, Delle Fave. Ma era ancora tutto molto informale. Fu con l’avvento di Sam Bianchi che l’istituzione “spogliatoio B” assunse i crismi dell’ufficialità e con gli ingressi di Camagni, Casamassima e Pedretti. Oltre a Mascheroni che rappresenta una sorta di trait d’union tra i vecchi e i nuovi».

Intanto, anche Lanzi è tornato in auge. «Sì, ma ora il mio ruolo è più professionale, mentre in passato si instauravano con i giocatori rapporti d’amicizia profonda. Sono le squadre a essere cambiate. E Cantù in maniera particolare alla luce delle note vicissitudini soprattutto dell’ultimo quinquennio. Giocatori che vanno e vengono, con i quali dunque risulta molto più difficile stabilire un punto di contatto che vada oltre il rapporto professionale. Americani giovanissimi con i quali non è semplice trovare argomenti in comune. Anche perché ormai io mi sono fatto vecchio...».

Sin quando occorre andare a ritroso per rintracciare quel valore sentimentale nel rapporto? «In realtà non è che si debba risalire alla notte dei tempi perché basta ricordare le annate di Mazzarino, Markoishvili, Micov e Leunen: atleti stranieri, certo, ma con un profondo senso d’appartenenza alla realtà canturina». Ecco il punto. Il senso d’appartenenza. «Farlo comprendere rappresenta il compito principale dello “spogliatoio B”. Fondamentale è far capire la canturinità, l’impegno, la voglia e il sacrificio. Ovvero ciò che chiedono da sempre i nostri tifosi. Prima ancora dei successi. Entrare a far parte di una vera famiglia è quello che proviamo a trasmettere a chi viene qui. Perché giocare a Cantù non è solo un lavoro, del tipo vengo, gioco e faccio. Eh no, è molto di più. È una filosofia. E i ragazzi di questa stagione hanno pienamente capito cosa volesse dire dopo la vittoria a Milano nel derby».

È rientrato da un annetto («avevo fatto un passo indietro perché avevo percepito che non c’era più lo spazio per proseguire in un certo modo») e come ha ritrovato l’ambiente del quale aveva fatto parte per oltre tre decenni? «I ragazzi che sono cresciuti con noi hanno portato avanti bene il discorso. Non scordo Christian Bianchi che, in un momento drammatico per la società, grazie anche a Sodini, ha contribuito in un ruolo certo non suo a far sì che la nave non si inabissasse. Ma anche altri hanno fatto molto più del loro».

«Personalmente, il fatto di non essere più al Pianella, mi ha spezzato il cuore - la confessione -. Quella era una struttura solo ed esclusivamente per noi, all’interno della quale il lavoro dello “spogliatoio B” si esplicitava al meglio. Il “Caimi”, invece, non lo consente. Non è casa, insomma, è come sentirsi perennemente in trasferta. La speranza è di tornare un giorno non lontano a giocare a Cantù».

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