«Io, Recalcati, Meo e l’effetto Pianella. Anni straordinari»

Alessandro Santoro , gm della Pallacanestro Cantù: «La nuova arena dovrà essere il moltiplicatore di ciò che accade a Desio»

Ombrellino nel long drink e via, verso il Ferragosto. Che è anche il ponte prima del ritorno a Cantù, fissato per stamattina. Una delle ultime volte, se non l’ultima, da scapolone. Perché dal prossimo giro Alessandro Santoro si porterà la famiglia, in quello che - sportivamente parlando - è il nuovo domicilio conosciuto.

Nel frattempo, si gode quel che ha fatto, e cioè una squadra destinata a essere protagonista anche nella seconda stagione in A2. Noi ne abbiamo approfittato per far partire il nastro con incisi i ricordi. Rivedendo istanti e istantanee. Con dentro tanta Pallacanestro Cantù.

Il gm di oggi Alessandro Santoro che giocatore era?

Assolutamente normale, come tanti. La conferma che tutti possono avere una possibilità se mettono sul tavolo voglia, spirito di sacrificio e determinazione. Diciamo che ho centrato obiettivi che, all’inizio, pensavo potessero essere solo sogni.

Con Reggio Calabria, per lei salentino del Nord, punto nevralgico di tutto...

Il crocevia più importante per la formazione del carattere. Perché si sa che ogni giovane, pur con talento o qualità fisiche notevoli, ha bisogno di maturare caratteristiche mentali. Servono sempre e, specie come accaduto a me, a compensare tutto il resto. Portandoti a competere ad alti livelli. Il segreto è essere mentalmente duri.

Ma a livello tecnico lei com’era?

Cambiai parecchio nel passaggio dal settore giovanile al professionismo. Coach Elio Pentassuglia mi ha modificato mentalità e ruolo, trasformandomi in un vero play. Del resto sono cresciuto con due punti di riferimento del basket brindisino come Chicco Fiscetto e Roberto Cordella.

Ci volle tempo prima di affermarsi.

Effettivamente, dopo l’A2 a Brindisi, sono tornato in B per prendere qualche schiaffo utile a maturare, prima di finire a Ragusa, dove in pratica ero già nell’orbita di Reggio. Al primo anno in Calabria trovai Tonino Zorzi, poi ci fu l’esperienza straordinaria con Carlo Recalcati, che mi ha perfezionato, affinato e aperto la strada alla carriera.

Eppure rischiò di cominciare subito male...

L’idea, infatti, era quella di cedermi. Ci fu poi una tournee di preparazione negli States e lì cambio idea su chi fossi, cosa potessi dare e come migliorare. Iniziò una storia di clamorose soddisfazioni per me, per noi, per la squadra e la città. Momenti che ancora tutti ricordano e che difficilmente torneranno.

Che allenatore era il Charlie?

È stato, ed è, uno dei coach più bravi a capire cosa ha davanti e cosa serve per avere il massimo dai giocatori e dalla squadra. Lucido nelle scelte e nelle decisioni. Dialogo e mediazione i suoi punti forti. Con me ha fatto la differenza, aiutandomi a dare il 200%, non solo per me stesso, ma per il gruppo. C’è una sua dote, però, che è senza dubbio la più importante di tutte: è persona per bene.

Praticamente folgorato...

Devo a lui quello che ho imparato da giocatore e da dirigente. Perché forse troppo spesso ci si limita a sottolineare le qualità del Recalcati allenatore, ma lui è avanti anche livello manageriale, con una capacità innata di trasferire anche il vissuto. I due anni insieme a Montegranaro mi hanno formato parecchio nel post carriera. Insegnandomi una cosa su tutte: prevenire i problemi. E mi è servito tantissimo.

Chissà adesso che siete vicini vicini a Cantù...

Non ci siamo mai persi, abbiamo sempre avuto contatti frequenti. Se ho un dubbio o un problema, so chi chiamare: lui. Lo ammetto. E lo ritengo una forza, non una debolezza.

Che giocatore era Romeo Sacchetti?

Di una solidità fisica e mentale incredibile. E mi sono fatto questa idea nel brevissimo periodo nel quale siamo stati avversari. Ricordo l’anno in cui facemmo il colpaccio a Varese in gara uno dei quarti playoff. A Reggio Calabria, nel ritorno, fu lui a essere il giocatore determinante, si prese la squadra sulle spalle e ci portò tutti sull’1-1, prima di tornare in Lombardia e batterci.

Un bel ritratto...

L’impressione, senza girarci troppo intorno, è che avesse serenità totale nell’essere consapevole di raggiungere l’obiettivo. Di una durezza incredibile. I ritmi li dettava lui, la situazione la ribaltò lui.

E giocare a Cantù che effetto le faceva?

Da avversario e da bimbo sognatore, un’impressione incredibile. Dettata dai nomi di chi vedevi con quella maglia, da Marzorati a Flowers, Bosa, Riva e Brewer. Soltanto a guardarli facevano soggezione. Mostri sacri.

E l’effetto Pianella?

Unico. La sensazione avuta era che si partisse già in svantaggio. A Cucciago ho vinto una sola volta, nel 1992/93, ma noi avevamo Garrett, Volkov, Sconochini, Bullara, Avenia, Lorenzon e Carlo in panchina. Per il resto, notte.

Un vero e proprio fortino...

Ti sembrava, entrando al Pianella, d’imboccare una salita con la cima sempre più lontana. Atmosfera che credo soffrissero un po’ tutti, in quella trasferta. A Cantù si respirava in ogni dove l’indole del combattente. È la magia che ha permesso di costruire la storia del club.

Quello che sogna di riproporre nella sua gestione?

La nuova arena dovrà essere, e sarà certamente, il moltiplicatore di ciò che oggi avviene a Desio. Vero, un palazzo grande, non il nostro, ma già negli ultimi playoff abbiamo avuto la percezione di ciò che può diventare. Nel frattempo è la nostra casa, finché non si tornerà a casa.

Un momento che lei sembra attendere dal primo giorno in cui ha messo piede qui...

Adesso, però, è molto più di una speranza, è una cosa più vicina. Uno degli obiettivi chiave di un percorso che può tornare a far sognare la città e tutti i tifosi.

Sempre ottimista, quindi?

Assolutamente sì. Anche per quel che riguarda la squadra, i tempi sono cambiati e si può pensare di fare buonissime cose spendendo i soldi giusti e facendo leva sull’ambiente. Io ne ho testimonianza diretta per quello che riuscimmo a combinare a Brescia con il PalaGiorgi di Montichiari sempre pieno. Vale, in termini assoluti, quasi il contributo di due giocatori.

Torniamo a rovistare nell’album dei ricordi: ci dà il quintetto di quelli che hanno giocato insieme a lei?

Play senza dubbio Pritchard, giocatore di classe cristallina. Poi Ginobili, e credo di non offendere nessun altro compagno, Sconochini, che con la sua stazza poteva giocare in tre ruoli, Volkov, un fenomeno, e Garrett, il lungo forse con l’impatto maggiore tra quelli mai venuti in Italia e che mi diceva: “Se ti saltano, non fare fallo, tanto ci sono qui io”. Una garanzia.

Dovesse difendere sull’ultimo tiro della partita a chi dei suoi giocatori si affiderebbe?

Non si scappa. David Moss, un vincente in ogni centimetro quadrato del suo corpo.

E l’ultima palla, quella della vittoria, a chi la metterebbe in mano?

A Marcus Landry, uno dei più belli da vedere tra quelli arrivati nel nostro campionato. Che tra l’altro, in alcuni casi, non faceva che approfittare del pallone passatogli da Luca Vitali. Furono la base dei risultati di una grande stagione a Brescia.

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