Sacripanti in A1
«La mia impresa»

Promosso a Napoli: «La soddisfazione è enorme. Ovunque sia andato, sono riuscito a portare in alto una squadra di bassa classifica»

Vedi Napoli e poi vinci. È successo a Stefano Sacripanti, Pino per tutti. Diventato il principe di una delle città più belle del mondo. E quel successo, la promozione in A, lo racconta a cuore aperto. Nell’attesa, o nella speranza, di diventare domani una delle statuine del presepe di San Giovanni Armeno.

Pino, che dire?

Che la soddisfazione è enorme. Ovunque sia andato, sono riuscito a portare in alto una squadra di bassa classifica. Mi è successo a Caserta, fino alla semifinale scudetto. Poi ad Avellino, tre finali in tre stagioni, e quindi a Bologna, settimi in classifica, in final four di coppa europea e poi esonerato per motivi per me non cestistici.

E pensare che prima di Napoli era già seduto su una panchina in Polonia...

Vero. Al Zielona Gora era tutto fatto. Mi volle fortemente Kozarec, un mio vecchio giocatore. Un bel biennale con opzione per il terzo anno, buone prospettive, ma era appena cambiata la proprietà e non me la sono sentita.

E allora?

Allora era un bel problema. Con tanti allenatori di serie A di primo livello, a quel tempo, pure loro a spasso: Banchi, Pianigiani, Dalmonte, Frates... Mi ha fatto davvero impressione. Sembrava che il ruolo del coach fosse improvvisamente sminuito. Quasi fosse un male necessario.

Un messaggio forte, il suo.

Ma figlio del tempo. Purtroppo una realtà. Quasi non ci fosse più meritocrazia. Tutti a dire: “Voglio un allenatore da 40 mila euro all’anno”. Allora via, a scorrere la lista. Piacciono di più quelli che non sporcano, non rompono, non chiedono e dicono sempre di sì. Che sono bravi a catturare like sui sociale e accattivarsi le simpatie della tifoseria.

Una condizione che lei non poteva accettare...

Volevo essere più forte di questa roba qui. Sapete cos’ho fatto? Con lo stesso coraggio con il quale accettai la proposta di serie A a Cantù a 30 anni, ho deciso di andare a prendermi una panchina di A2, per una squadra da portare su. Subito. Da protagonista. Perché in quella categoria che mi avevano tolto volevo tornare dalla porta principale.

Proprio lei che aveva detto che in A2 non sarebbe mai andato ad allenare..

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Un momento, è vero: l'ho detto. Ma il mio procuratore sapeva bene di due eccezioni.

Quali?

Cantù, per una questione di cordone ombelicale mai staccato. Un amore viscerale, la mia terra, la mia gente, la mia educazione. E poi Napoli. Negli anni a Caserta e Avellino, ho passato tante serate sul Golfo. È una città magica, un’emozione, uno stato d’animo.

Detta così, gliela facciamo passare. Ci racconti, allora, questa sua ultima scommessa vinta.

Io ritengo di aver vinto subito, al primo anno. Perché in realtà sono arrivato qualche mese prima, ma poi il Covid bloccò tutto. Vero che, presa una squadra ultima a zero punti, prima dello stop eravamo sesti e nessuno poteva dire come sarebbe finita. Ci sono voluti coraggio e tanta forza di volontà in una piazza senza una vera e propria struttura, che esisteva solo da due anni.

Lei ha fatto di più, però...

Ho voluto dire fin da subito a me stesso che c’era da mettere la stessa qualità usata in tutta la carriera. E al primo anno vero con una squadra costruita insieme e non trovata come mi era accaduto, abbiamo vinto Coppa Italia e campionato. Riportando entusiasmo e la gente a seguirci, in una piazza che sa come ricompensarti.

Si vince come?

Anche non adeguandosi al sentito dire, a quello che bisogna fare in un campionato che è molto diverso dalla A. Ho voluto portare il mio modo di pensare e lavorare, ovviamente avendo tantissimo da perdere. E rischiando

Una promozione, si sa, val bene una dedica. La sua?

Mi viene naturale, e personale. È stato un anno bruttissimo per la mia famiglia, con la scomparsa di papà e mamma rimasta sola.Un anno veramente difficile, mi piace pensare di aver fatto qualcosa di importante anche per lui.

Un’esperienza, quella sportiva, comunque arricchente.

Senza dubbio. Ma non credete sia stato tutto facile. Tante volte, andando a casa, ho rimpianto la scelta. Perché era tutta un’altra dimensione. Bisognava prendere per mano una società che voleva crescere e vincere e portarla avanti. Da una gestione, nel senso più positivo e verace del termine, tarallucci e vino alla mia richiesta ossessiva di lavorare di più. Penso che dopo la prima riunione, metà della squadra avrebbe scelto di andar via, avesse potuto. Ma l’abbiamo vinta tutti assieme, a cominciare da due americani che lo erano solo per passaporto e che invece pure loro ci hanno dato tutto, primi ad arrivare e ultimi ad andarsene.

N

apoli Basket è?

Una società che ha saputo tornare in A dopo 13 anni, volendolo fortemente e dicendolo fin dal primo giorno. Per me una prospettiva diversa, un’altra possibilità di lavoro. Con una forbice di appassionati molto ampia: dalle 700/800 persone che trovai appena arrivato, ai 3200/3300 pre Covid. Non riesco a pensare cosa sarà l’anno prossimo...

Dicono che lei si sua ricreduto.

Su cosa?

Sul fatto di non allenare mai in A2.

Ridetto delle eccezioni per Cantù e Napoli, sono sicuro che un’esperienza come questa, qualora si presentasse, la rifarei subito. Un sorta di Mr Wolf di Taratino, chiamato per aggiustare le cose.

Si è imposto sfatando anche dei miti tecnici sulla categoria.

Premesso che il 99% dei colleghi, amici e giornalisti, alla notizia dell’ingaggio di Napoli, mi consigliarono di non farlo, io sono andato lo stesso, senza guardare in faccia a nessuno e dominando. La gente era convinta che si dovesse giocare con i piccoli, che il 5 non servisse e bastasse fare canestro con non più di 8 giocatori. Io invece ho messo il fisico e la pressione davanti a tutto. Due centri sempre, Lombardi da quattro e via per la mia strada, con la miglior difesa del campionato.

È quello che dovrebbe fare Cantù per cercare di risalire subito?

Non ho consigli da dare a Cantù, perché con uno staff di valore come quello con Sodini e Frates, ho solo da dire quello che ho fatto io. Non mi sono mai nascosto, la parola sconfitta non doveva esistere. Con un solo obbligo: vincere. Giocando bene o male, non contava. Bastava farlo. Tirandomi addosso tanta pressione, è vero, ma sempre trasformata in positivo. Forse non eravamo i più forti, ma siamo stati i più bravi. Ci abbiamo messo una dedizione pazzesca, abbiamo vissuto casa e palestra per evitare il virus, affidandoci sempre a una grande intensità. Ecco, chi arriverà a Cantù quest’anno dovrà sapere che non ha altre alternative alle vittorie. Senza la paura di essere favoriti.

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