Rossini: «Cantù è casa mia
Da Manu a Charlie, che emozioni»

Il saluto dell’ex addetto stampa che dopo nove anni va a Cagliari

Il tesoro dell’Isola. Nel senso che è lì, in Sardegna, che Luca Rossini - 35 anni, qualcosa in più di un semplice ex responsabile della comunicazione della Pallacanestro Cantù - è andato a dare una pennellata di fresco alla sua carriera.

Cagliari, via Sassari (dove ha sede la proprietà), per aggiungere anche un qualcosa d’importante al suo curriculum: il ruolo di team manager della nascente Cagliari Dinamo Academy, serie A2, là dove l’anno scorso c’era Ferentino. Ma gli otto anni di Cantù sono appiccicati sulla pelle e non si possono cancellare.

Perché adesso?

Perché si era creata un’opportunità interessante. Con un progetto nuovo, che parte da zero. Mi ha spinto il voler cogliere l’occasione, e proprio in un momento di grandi cambiamenti per la Pallacanestro Cantù.

Quanto ci hai pensato?

Tanto. È stata una scelta complicata, anche e soprattutto dal punto di vista emotivo. Cantù è la società in cui ho sempre lavorato e quella che considero la mia città. C’era dunque anche un aspetto personale. Mi solleva il fatto che il distacco possa essere temporaneo. E che qui abbia trovato un gran bel progetto.

Il tuo futuro prossimo venturo?

Impegnato. Molto impegnato. Principalmente a livello di testa. Il club deve partire, ci sono tantissime cose da fare. E per fortuna mi sostiene uno staff di altissimo livello.

Dall’ambiente cosa ti aspetti?

Tanto, dai. A Cagliari c’è tantissima passione. E, a differenza del calcio, forse pure la curiosità di ritrovare una serie A e una squadra con giocatori stranieri. Sono convinto che i tifosi possano seguirci e caricarci.

Fin qui presente e futuro. Ora torniamo un po’ indietro. Tutto cominciò?

Nel febbraio del 2009 quando Alessandro Corrado e Walter Bellotti, su indicazione di Anna Cremascoli, mi chiesero la disponibilità. Si era appena risolto il rapporto con Simone Giofré. Con un po’ di incoscienza, ma lavorativamente parlando di sembra di averlo dimostrato anche ora, accettai. All’inizio ero scarso, poi sono migliorato.

Anche perché non arrivavi dal nulla.

No. Un po’ perché conoscevo l’ambiente e un po’ perché la struttura del tempo - e penso a Vincenzo, Lorena, Alessandro stesso e Bruno - era incredibile e stupenda. Mi aiutò non poco a sbrigare le prime pratiche anche Gianpietro Elli.

Visto da dentro, era lo stesso ambiente della pallacanestro che immaginavi da fuori?

Di più. Per me era come entrare in un mondo fatato. Quello dei miei sogni. Un ambiente bellissimo, a Cantù ancora di più perché era la squadra del cuore.

Hai poi visto passare truppe di giocatori.

Quali le difficoltà?

Per carattere sono un abitudinario. Allora ho deciso di agire per schemi, replicando sempre le stesse cose. Un’esperienza arricchente. Ho incrociato un sacco di gente, ogni volta una storia nuova. Ma con una struttura clamorosamente oliata, ho potuto lavorare nel confort e nell’agio.

Ci sarà stato qualche atleta al quale ti sei maggiormente affezionato...

Non me ne voglia nessuno. Ma come spesso ho detto, quelli delle quattro M: Markoishvili , Micov, Mazzarino e... Leunen. Che comincerà pure per L, ma che per me è sempre stato Martino.

È stato il periodo più bello?

Il periodo che più mi è rimasto impresso. Vigeva il concetto del “gruppo”. Per esempio mi chiedeste qual è stato lo staff dei miei otto anni vi direi...

Ci diresti?

Quello con Lanzi, Sem e Christian Bianchi, Della Fiori, Federico Casamassina, Camagni e Arrigoni. Incarnava il nostro spirito. Lanzi, poi, nella mia prima trasferta, a Roma, mi fece da tutor ovunque. E anche per questo gli sono grato.

L’amico con la A maiuscola dell’esperienza in Pallacanestro è?

Daniele Della Fiori, senza dubbio. Anche se al momento dei saluti l’anno scorso non mi citò, e questo non glielo perdonerò mai. E pure se il nostro primo approccio non fu dei migliori. Lo chiamai alla nomina per dirgli quali erano le prime pratiche da sbrigare, mi rispose che era via fino al 30 agosto e che quindi non c’era niente da fare. Ma lui, oltre a essere un professionista di altissimo livello, ha valori umani speciali.

Non è l’unico amico, però.

Noto il fatto che dentro la società fosse Nicola Brienza, con il quale ho condiviso il percorso da allenatore nelle giovanili. E fuori la società, Giò Pozzoli, altro cardine del vivaio.

E a proposito di vivaio...

Ci tengo, ci tengo tantissimo. Mi auguro che si continui a preservare in eterno il valore sociale e cestistico del Progetto Giovani Cantù. Che non finirò mai di ringraziare per quello che ha fatto, fa e farà nella crescita e nello sviluppo formativo, sportivo e personale dei ragazzi.

T’aspettavi tutta questa valanga di affetto?

È stata la cosa più sorprendente e piacevole. Avevo davanti a me un muro da scalare, anche psicologico, e questo sostegno è stato fondamentale. Vuol dire pure che a livello di rapporti umani qualcosa ha funzionato. Bello anche sentirsi coccolato dai ragazzi che avevo allenato. Per me è un arrivederci, non un addio.

Apri il cassetto e di Cantù cosa trovi?

Non maglie, perché non sono collezionista. Ma tanti tanti accrediti, quelli sì. Quando non li ho persi, me li sono tenuti. Rappresentano le tante tappe di un’esaltante esperienza.

Hai lavorato con nove allenatori.

Una definizione per ognuno.

Usti. Cominciamo.

Dalmonte.

Onesto. Anzi di un’onesta incredibile. E preciso.

Trinchieri.

Geniale.

Sacripanti.

Umano. Disponibile.

Corbani.

Entusiasta.

Brienza.

Intelligente. Soprattutto nell’adeguarsi alle situazioni.

Bazarevich.

Curioso. Era in un contesto non suo. È più bravo di quanto forse ha potuto dimostrare.

Kurtinaitis.

Schematico. Ma in senso positivo, viste le sue idee.

Bolshakov.

Furbo.

Recalcati.

Uomo di stile. Tecnico di spessore. Razionalità, capacità ed esperienza. In pratica, tutto.

Via con i presidenti: Corrado.

Persona speciale. Con grandissimi valori umani.

Cremascoli.

Seria e capace. Specie nel far funzionare le cose.

Dmitry Gerasimenko.

Appassionato. Molto. Ed esuberante. Uguale.

Irina Gerasimenko.

Abile a condividere la passione del marito. Con modi e caratteri diametralmente opposti.

Il giocatore più riottoso?

Sundiata Gaines. Ma poi cambiò.

E il più disponibile?

Manu Markoishvili. Un angelo.

A quando un libro sugli anni in Pallacanestro?

Fra poco. Troppa roba da scrivere e da raccontare. Anche qui già tutti chiedono di uscire con me a mangiare per via dei miei aneddoti...

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