«Io, con la testa in uno scafandro
Ho pregato e 44 giorni dopo eccomi»

Cantù - La testimonianza di un fedele della Comunità San Vincenzo, sopravvissuto al Covid. Il racconto di Dario: «Bloccato in posizione seduta, su di una barella, 24 ore su 24. Il conforto nell’Ave Maria»

«Io, con la testa in uno “scafandro” di plastica, pregavo». È questa la testimonianza di un fedele della Comunità San Vincenzo, sopravvissuto al coronavirus. Il suo nome è Dario, e preferisce non aggiungere, per riservatezza, il proprio cognome. Si tratta di una persona amica, negli ambienti delle parrocchie del centro. Che ha voluto, con una lettera aperta, condividere la sua esperienza. I giorni in ospedale, con il coronavirus, a dover dipendere all’improvviso dagli altri. Soli: senza famiglia. Attorno, le altre persone in difficoltà. Unico conforto: la preghiera.

«Insieme a molti altri - racconta Dario - ho attraversato l’esperienza del Covid-19. Il coronavirus, che per qualcuno è diventato carognavirus. In pochi giorni, da una situazione di normalità, di autosufficienza, di coscienza di poter fare tutto ciò che si desidera e si vuole, si arriva ad affidare completamente la propria vita nelle mani di altri. Con la testa racchiusa in uno “scafandro” di plastica, bloccato in posizione seduta, su di una barella, 24 ore su 24. Associata inscindibilmente al respiro era la preghiera: un’unica azione possibile regolata dalla propria volontà. La preghiera si fondeva con il respiro, il respiro modulava la preghiera. L’Ave Maria diventava un intercalare di inspirazioni ed espirazioni».

«La prima sofferenza - prosegue - è la lontananza dai propri cari, via via più intensa man mano che il tempo passa: 44 giorni di separazione sono pesanti da sopportare. Il cellulare, in questi casi, diventa lo strumento che aiuta. La seconda sofferenza è quella vissuta da chi ti sta accanto: non si può restare indifferenti quando il vicino di letto mal sopporta la mascherina dell’ossigeno. I pensieri, le aspettative, le riflessioni, la paura che ha generato, cambiano da persona a persona. Quello che descrivo, diventa quindi solo quello che personalmente ho provato. Il tempo del Covid-19 è quello in cui si sperimenta la propria debolezza».

Christian Galimberti

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