L’operatrice sanitaria di Cantù
«L’anno più duro al reparto Covid
Ho visto persone morire sole»

Il racconto di Nazarena Sorrentino, “oss” dell’ospedale Sant’Antonio Abate, che va in pensione dopo 42 anni: «Mai visto niente di simile»

«Mi dispiace aver lasciato per la pensione. Sarei rimasta al lavoro. Nel reparto Covid in cui ho lavorato, a Cantù, c’era un po’ di tutto: chi aveva sintomi e chi portava il casco. Abbiamo avuto dei decessi. Sotto il lato psicologico, non è semplice, veder morire i pazienti, e dover fare qualcosa che in condizioni normale non faresti. Perché i pazienti, al di là di noi, presenti, e delle videochiamate a casa, muoiono senza i loro familiari. Soli. E quando muoiono, ti trovi con un corpo e una sacca mortuaria. Ed è sempre molto pesante»

Da Mariano al S. Antonio Abate

Nazarena Sorrentino, operatrice socio-sanitaria fino a poco tempo fa in servizio all’ospedale Sant’Antonio Abate di Cantù, 60 anni, da pochi giorni è andata in pensione. Nell’anno più duro: l’anno della pandemia. In 42 anni di lavoro, lei, che aveva iniziato 18enne, non aveva mai visto niente del genere

Nazarena - sposata con Felice Asnaghi, 64 anni, tecnico di laboratorio anche lui per anni all’ospedale di Cantù, oggi in pensione - rivede la sua intera vita professionale a partire da quel lontano 1979, quando, all’epoca, all’ospedale di Mariano Comense, le camere e i corridoi del reparto, racconta, erano stipate di pazienti. Operatore socio-sanitario, altrimenti detto, una volta, infermiere generico. Il compito lodevole di Nazarena, per una vita, è stato quello di servire il paziente: pulizia corporea quotidiana, ascolto delle richieste, conforto umano, riordino del letto.

«Quando ho cominciato a 18 anni, ero inconsapevole di quello che stavo andando a fare, poi con gli anni ho scoperto che era questo il lavoro per me - racconta - Un lavoro diventato sempre più complicato, oggi bisogna gestire, oltre ai pazienti, anche i parenti, e c’è minore comprensione da parte dei familiari. Da questi anni mi porto via tante cose belle, e altre meno».

«Con la pandemia è stata dura - racconta - la prima ondata era inaspettata, grazie a Dio siamo riusciti a venirne fuori, alla seconda ondata, forse, l’Italia non era comunque pronta. Tanti pazienti in più, vuoi perché si fanno più tamponi, ma come è noto i posti letto non bastavano, e il reparto dove lavoravo normalmente è stato trasformato in reparto Covid. Un lavoro già pesante, reso ancora più pesante dal doversi vestirsi con la tuta. Abbastanza complicato. E la situazione ancora adesso non è certamente semplice».

Famiglia e volontariato

Ora che è in pensione, Nazarena intende pensare alla famiglia ma non solo: «Da giovane mi pesava lasciare i figli, non poter stare con loro. Ma penso che comunque mi darò da fare con del volontariato. Non per forza facendo grandi cose: a volte basta aiutare i vicini».

«L’operatore - interviene il marito - è la figura più esposta al contagio, che rischia di portarsi il virus a casa. Nazarena ha sempre amato il suo lavoro: operosa, silenziosa, gentile, attenta, sicura, professionale. Quest’anno, poi, è stato molto pesante lavorare per l’irrompere del Covid-19 in corsia, tanti decessi, tanta paura. Nel giro di un paio di mesi, all’ospedale di Cantù ci sono stati 41 sanitari infettati (la scorsa primavera, ndr). Non c’è stato giorno che Nazarena non si sia affidata a Gesù. La ringrazio per aver cresciuto i nostri tre figli. È chi lavora con coscienza che manda avanti il mondo».

Christian Galimberti

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