I clandestini e l’emigrazione per solidarietà

Si parla di accoglienza e integrazione con quanti arrivano da culture più o meno lontane. Film già visto trent’anni fa quando dal Sud arrivarono in cerca di lavoro migliaia di lavoratori che contribuirono allo sviluppo economico delle nostre regioni e verso i quali, dopo diffidenze e ostilità, prevalse il senso umanitario delle nostre genti. Oggi, di fronte a nuove e più massicce migrazioni, abbiamo il dovere di tirare le somme. Se è nata la Lega, probabilmente non tutte le cose sono andate nel verso giusto. Non dimentichiamoci le scritte sui muri del Varesotto che chiedevano case popolari anche per i lombardi, visto che più dell’80% erano date a chi arrivava dal Sud. L’occupazione dei posti pubblici da parte degli immigrati aveva raggiunto livelli scandalosi agli occhi delle persone nate sul posto. Con le nuove generazioni la saturazione è stata totale. Non le si accusa di aver trovato un posto di lavoro ma qualche domanda è concessa. Le poste, i servizi pubblici, l’amministrazione della giustizia hanno funzionato bene? La criminalità e l’infiltrazione mafiosa è cresciuta tanto o tantissimo? Prima di parlare di ulteriore integrazione, le genti del Nord lasceranno passare almeno tre generazioni.

Claudio Ratti

La sua lettera offre lo spunto per ricordare che c’è un’emigrazione al contrario della quale si parla troppo poco. Quasi mai. E’ quella dei volontari che partono di qui e fanno viaggiare conoscenze professionali e solidarietà umana nella parte di mondo che ne invoca la presenza. Sono soprattutto loro a insegnarci che spirito d’accoglienza e voglia d’integrazione si possono esportare, oltre che mettere a disposizione degl’importati: accoglienza delle richieste d’aiuto, integrazione dei più sfortunati. E’ una cifra etica di cui va tenuto conto perché altrimenti il bilancio riguardante la nostra terra non quadra. Nel “Diario d’Africa” pubblicato dalla Nuova Editrice Magenta, Dino Azzalin - un poeta che fa il medico, e spesso medica con la poesia - testimonia di questo spirito di servizio. Lo ha imparato fin da ragazzo, emigrando (attenzione: emigrando) dalla provincia di Padova al Varesotto e praticando la cultura del sacrificio; e non l’ha scordato successivamente, quando il lavoro ne ha premiato i talenti. E’ andato, e seguita ad andare, in paesi tanto lontani dalla civiltà dell’egoismo quanto vicini alla sensibilità di chi non se ne fa prendere. E’ un clandestino della generosità, di cui si sa qualcosa solo attraverso qualche sbarco nella letteratura. Quante generazioni ci vorranno per averne una composta, tutta, di gente così?

Max Lodi

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