La nuova politica ricomincia anche dalle città

Occorre sottrarre i grandi progetti alla speculazione per restituirli alla discussione

L’attuale crisi economica, la più grave dopo quella degli Anni Trenta, non travolgerà il capitalismo ma ne cambierà verosimilmente i caratteri. L’esperienza storica ci ha insegnato che lo Stato come gestore dell’economica è fallito ma è parimenti fallito il mercato come regolatore della società. Non a caso le due parole più ricorrenti nel discorso politico di Obama sono cambiamento e redistribuzione. Solo la politica può ridisegnare un nuovo rapporto tra Stato e mercato ma, finora, la politica non è riuscita a mettere in campo alcuna strategia che vada oltre la gestione del quotidiano.
Succede anche in Italia. Per la sua incapacità a capire i fenomeni e, conseguentemente, a guidarli, la politica italiana perde consensi perché non riesce ad andare oltre le tradizionali categorie della destra e della sinistra verso una nuova sintesi che tenga conto della realtà globale. Il nuovo che si è verificato in America sembra impossibile in Italia ove ci si contrappone quasi negli stessi termini di mezzo secolo e si ripetono gli errori del passato dimenticando gli aspetti positivi. Non a caso in Italia la crisi economica venne a coincidere, alla fine degli Anni Ottanta, con l’involuzione dei partiti che, dimenticando il bene comune, consentirono la formazione di un mostruoso debito pubblico per rincorrere le richieste corporative e presidiare un incerto consenso.
Adesso il partito coincide con la persona del leader, la militanza è stata sostituita dai sondaggi e la partecipazione consiste nell’uso delle risorse emozionali anziché di quelle razionali. Non si valuta una parte politica per i programmi, i progetti, le realizzazioni che riesce a mettere in campo ma in base alla simpatia, al carisma, all’infatuazione per il capo. Questa situazione porta a una democrazia degli applausi che è anche una democrazia della denigrazione. Nessuno, da noi, oserebbe dire, come John McCain: «Abbiamo lottato duramente, ora bisogna rimettere in pista questo Paese».
Invece di confrontarsi sui problemi reali con critiche ma anche con proposte, da noi c’è solo uno scontro di propagande perché la politica, cioè la comprensione dei problemi, ha lasciato il posto al decisionismo berlusconiano e alla solitudine veltroniana che relega la volontà dei propri seguaci nei gazebo e nelle piazze. È scomparso il senso della città come il luogo di una comunità vivente in cui gli abitanti si riconoscono reciprocamente e i grandi progetti non sono più discussi dai cittadini, attraverso i partiti, ma lasciati alla speculazione. Se la politica abbandona la città anche la società perde i suoi riferimenti, diventa un insieme di aggregati culturalmente spenti, intolleranti e, non di rado, violenti.

Camillo Massimo Fiori

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