«Noi, coniugi anti-Covid
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Angela e Giovanni, tornati al Sant’Anna per aiutare i colleghi: «Se le persone fossero qui con i malati da virus, starebbero più attente»

Se la gente vedesse cosa succede dentro all’ospedale, non si assisterebbe a certe scene in città. Così la pensano marito e moglie, entrambi infermieri, due persone che hanno volontariamente scelto di tornare nel pronto soccorso del Sant’Anna nell’anno più drammatico per la nostra sanità. Hanno retto alla prima e alla seconda ondata, ora sono a casa con il Covid.

«Quanta solidarietà»

Giovanni e Angela Scarano, 57 e 49 anni, lavorano da decenni insieme nel reparto d’emergenza, ancora ai tempi del vecchio ospedale. È lì che si sono conosciuti e si sono innamorati. «Pochi tempo fa abbiamo deciso di trasferirci in Valtellina ottenendo il passaggio all’ospedale di Menaggio – raccontano Giovanni e Angela – ma a marzo non ce la siamo sentita di lasciare da soli i colleghi. C’era bisogno in rianimazione e siamo tornati in città a dare una mano. Siamo rimasti in area Covid fino a giugno. È stata dura, inizialmente c’era il terrore. La terapia intensiva era piena di persone di 40 e 50 anni che non riuscivano a respirare. Ogni mattina attaccare il turno indossando le pesanti bardature è faticoso. Ma in qualche modo è stato anche entusiasmante. Si percepiva una grande solidarietà umana, un grande coraggio. Tanti colleghi sono arrivati in ospedale per dare un contributo. Squadre di cardiologi, pneumologi, esperti in diverse specialità tutti prestati alla stessa causa. Poi a fine maggio sembrava passata. Tutti o quasi sono tornati alle loro attività. E invece no, non era vero».

Se la prima ondata ha messo a dura prova la terapia intensiva la seconda ondata si è abbattuta con maggior forza sul pronto soccorso del Sant’Anna. Scarano è di Nesso ed è cresciuto da bambino insieme a Roberto Pusinelli, il primario del pronto soccorso del Sant’Anna. E così Pusinelli arrivato l’autunno ha chiamato nuovamente l’amico. Del resto tanti sanitari a fine ottobre sono stati contagiati. Le energie a disposizione in ospedale erano poche. «E quindi siamo tornati a fare avanti e indietro al pronto soccorso di Como – spiegano marito e moglie – lasciando a casa la figlia a fare didattica a distanza. Ad inizio novembre sembrava la battaglia delle Termopili. Medici malati, colleghi in quarantena contro decine e decine di pazienti in attesa sulla barella. Percorsi puliti, percorsi sporchi, con quaranta, anche cinquanta accessi al giorno sospetti. Ancora adesso l’impatto sulle funzioni non Covid si fa sentire, gli ospedali non sono tornati di nuovo in equilibrio».

A inizio mese Angela ha incominciato a tossire con insistenza. Giovanni all’improvviso un mattino si è sentito stanco ed ha provato la febbre. Era a 39. Il tampone, la saturazione, la quarantena, le terapie. In queste situazioni la paura è un sentimento umano.

La paura

«Sì, soprattutto dopo aver visto decine di persone boccheggiare per trovare il fiato – commentano i due infermieri – la malattia è sfibrante, non per tutti passa subito, non è sempre asintomatica. Adesso stiamo meglio, aspettiamo il tampone negativo per tornare al lavoro al Sant’Anna almeno fino a fine anno. Sperando che a gennaio non ci sia più bisogno di noi. Purtroppo però pare che la gente non sia più interessata al grande male. Sembra anzi che si sia abituata al triste calcolo dei decessi, agli ospedali saturi. La responsabilità sta agli individui, ma anche al sistema e all’economia che permette a tutti di andare in centro a fare shopping. La voglia e la necessità sono anche comprensibili. Ma il virus è sempre pronto a colpire. Se l’opinione pubblica avesse visto anche solo per qualche minuto i pazienti in reparto senza respiro, i giovani con addosso il casco e gli anziani senza più la paura di morire, di sicuro la responsabilità collettiva oggi sarebbe ben diversa».

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