«Politici, basta flirt con la ’ndrangheta»
I clan lombardi? «Origini comasche»

I magistrati antimafiaLa coordinatrice della Dda e l’ex pm lariano Addesso ospiti ai Lions Alessandra Dolci: «Qui è concentrata la maggior parte della nostra attività investigativa»

Negli ultimi 12 anni a Como sono state arrestate 75 persone con l’accusa di associazione di stampo mafioso: «Sono poche rispetto alla realtà. Lavoriamo per incrementare questo numero».

Chi cercava motivi di conforto nelle parole di Alessandra Dolci , coordinatrice della Direzione distrettuale antimafia di Milano, e del pubblico ministero Pasquale Addesso , ex magistrato comasco ora in forza alla Procura milanese, è rimasto deluso. Ospiti lunedì sera a Como dei Lions di Como e Cernobbio, i due magistrati hanno scattato una fotografia impietosa del nostro territorio.

«Qui la presenza della ’ndrangheta è quarantennale - ha detto Alessandra Dolci - L’origine dei clan calabresi in Lombardia è comasca. E su questo territorio si concentra gran parte della nostra attività investigativa». I motivi? «Alcuni sono storici, come il confino. Ma da allora di tempo ne è passato. Il fatto è che qui i clan hanno trovato la ricchezza, la vicinanza con la Svizzera e un tessuto sociale che ha accettato di lavorare con loro». Soprattutto da quando le famiglie della malavita calabrese hanno cambiato strategia: «Dal 2012 al 2016 nel Comasco abbiamo avuto 462 reati spia, fra incendi dolosi, attentati, lettere minatorie. Dopo quella data, questi reati sono drasticamente diminuiti. Perché stiamo vincendo? No, il contrario: la ’ndrangheta si è mimetizzata e una parte di imprenditoria viene a patti con i clan». Follow the money, diceva Giovanni Falcone. «Nei cinque anni in cui ho lavorato qui a Como - ha detto Addesso - ho intercettato una domanda enorme di evasione fiscale, che cercava risposta. La ’ndrangheta fa questo: risponde a una domanda di mercato. Ma soltanto i miopi possono pensare di gestire un ’ndranghetista come un costo aziendale».

Eppure - ha ricordato Alessandra Dolci - «gli imprenditori che non amano rispettare le regole di mercato, che non rispettano i canoni della correttezza fiscale, hanno trovato nella criminalità una soluzione. Dimenticando che i proventi dell’evasione fiscale vanno ad alimentare il sistema assistenziale della ’ndrangheta: il sostentamento delle famiglie dei soggetti che arrestiamo».

Particolarmente incisivo il richiamo al mondo della politica. Pesanti critiche sono piovute su La Provincia quando, a novembre, vennero pubblicati i retroscena di incontri tra politici locali e personaggi legati alla malavita. Si disse che, senza la contestazione di reati, quei retroscena erano «sciacallaggio». Ma la coordinatrice della Dda la pensa diversamente: «In questo Paese si pensa che se una condotta non sia sanzionata, allora debba essere lecita - parole della dottoressa Dolci - Spesso intercettiamo condotte penalmente neutre, ma lo sono anche dal punto di vista etico? Nel Comasco abbiamo accertato che un condannato per associazione mafiosa è stato invitato da un candidato sindaco al suo gazebo elettorale. È reato? No, non lo è. Ma la sconfitta della ’ndrangheta non può passare solo dal’attività repressiva, è anzitutto una questione di etica». E ha proseguito «In passato, nei piccoli paesi, si creava il vuoto attorno a chi commetteva reati. Ora non è più così. E la scusa di chi dice: “non posso chiedere il certificato penale a chi viene alle mie cene elettorali”, non vale. È venuta meno la soglia minima dell’etica. Anzi, siamo ben al di là di quella soglia».

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