La zingara, il sogno, la borsa
La paura nel mondo di oggi

In anteprima un racconto della scrittrice comasca Marisa Bulgheroni pubblicato in una raccolta in uscita a giorni e dedicata ai timori del nostro tempo

Pubblichiamo in anteprima per gentile concessione dell'autrice e dell'editore un estratto dal racconto che la comasca Marisa Bulgheroni ha scritto per il libro «10 in paura» (Epochè). Il libro, che sarà nelle librerie nei prossimi giorni, raccoglie dieci racconti dedicati al tema delle paure che attraversano il mondo contemporaneo.

Marisa Bulgheroni
Ho sognato di essere una zingara. Adolescente, come l'adolescente che ognuno di noi, nel tempo, ritrova in sé: rissoso, assorto, alieno. Ho sognato di far paura, e di avere paura, per il sospetto che leggevo negli occhi degli altri: rapidi a escludere, a tagliare. Via, non ti voglio vedere, non hai il diritto di esistere. Avevano paura perché, esistendo, li minacciavo di un contagio mortale, o perché ero troppo viva?
Ferma a un semaforo - l'eterno semaforo dei lavavetri, dei bambini schiavi, degli erranti - ho visto, dall'altro lato della strada, tra i fiocchi della prima nevicata milanese che cola come piombo sulla città, una donna non più giovane, ma travestita da ragazza, con il cappuccio bianco, l'ombrello rosso e blu. Esita, un po' smarrita, sul bordo del marciapiede, stringendo contro il fianco la borsa a tracolla a strisce colorate...
Non sai, bella signora, che, per quanto tu stringa, strappartela è un gioco per le mie mani ballerine. Non sai che sono un'acrobata: alla Stazione Centrale, vestita da ragazzino, danzavo tra i viaggiatori in partenza, grigi e frettolosi come cimici, sfilando un portafoglio da un grigio didietro, una mazzetta di euro da una tasca laterale, una carta di credito o un bancomat da un taschino, prima che i poliziotti mi acchiappassero. Un passero, un passero ladro, veloce a volar via...
Nell'attesa che si prolunga, la donna mi guarda con apprensione e curiosità. Non sa che sono un'indovina, che il rumore dei suoi pensieri mi raggiunge senza suono nella neve: «Mi deruberai, questo è certo, mentre attraversiamo, e io mi distrarrò a fissare il tuo scialle verdemuschio, la tua gonna a fiori e foglie, un piumaggio naturale che la miseria non scolora. Dove trovate, voi zingare, questi scampoli di una moda impazzita? Neppure all'arcobaleno io oserei chiedere le tinte che tu hai rubato chissà dove! Prendi, in cambio, il mio piumino bianco, il mio ombrello firmato, e lasciami la borsa!».
Ma ecco: il semaforo scatta. La figurina verde dell'immortale pedone palpita nel riquadro nero, rassicurante come un impiccato per chi si avventura sulle strisce... Stiamo per attraversare. La donna, ancora lontana, mi fissa, quasi mi riconoscesse: quasi fossi lei, in un altro tempo, in un'altra vita.
Il sogno si aggroviglia come la pellicola di un vecchio film metropolitano di guerriglia e inseguimenti. Un filo di racconto rossosangue si dipana per la città violenta, acquartierata nei suoi consumi; si snoda tra la neve che riempie le buche, copre le cicatrici dell'asfalto, orla di diafani merletti le baraccopoli dei nomadi scampati all'ultimo sgombero, all'ultimo bollettino di guerra.
La zingarella si avvia a testa alta con passo danzante; urta leggermente la donna. Le sue dita di musicista hanno già aperto il fermaglio della borsa, già tastano il portafoglio, quando inciampa con il tacco di uno zoccolo in un cumulo di neve, e cadrebbe, se l'altra non la sorreggesse. Allora, sciogliendosi dall'abbraccio, sfrontata tende la mano: «Grazie, bella signora! Ho fame, signora tanto buona...» La donna si fruga in una tasca, stringendo, ancora inconsapevole, la borsa; lascia cadere una moneta da cinquanta centesimi nel palmo scuro; e, come una sonnambula, che ricada nel torpore dopo un attimo brusco di veglia, punta d'istinto verso il marciapiede opposto. In quell'attimo ha visto luccicare al collo della zingara un amuleto, una “mano di Fatima” in filigrana d'oro, reticolata di molteplici aperture, “aperta all'invisibile”...
Così, ricorda, diceva suo padre che l'aveva portata dalla Libia a sua madre, così ripeteva tenendola in controluce.
Quell'amuleto è suo, rubato anni prima in casa sua, da zingari - ne è certa perché i vicini li avevano visti scappare, scomparire lungo le scale. Quella mano fatata le appartiene: la rivuole.
La zingarella si stringe nei suoi stracci colorati. «Sporca, maledetta gagi, troia, gagi di merda», cantilena nella neve sempre più fitta. È di malaugurio cominciare una giornata di lavoro con così poco. La donna è ancora in vista, all'angolo tra via Olona e via San Vittore. La seguirà prima che scompaia come una nuvola all'orizzonte. La sorprenderà. Al cavalcavia Bacula, alla Ghisolfa, da dove è partita quel mattino, vuole ritornare il più tardi possibile. C'è un'insana agitazione nel campo, tra le baracche avvinghiate alla arcate del ponte: un vento maligno dissemina di bocca in bocca la parola sgombero. Sgombero come esodo come esilio come sfratto da un mondo conosciuto. E lei, l'adolescente zingara, ne ha vissuto più d'uno, l'ultimo la primavera scorsa, un'altra tacca che si è incisa, dolente, dentro di lei.

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