Professione reporter,
tra vero e verosimile

Le inchieste più scottanti passano dai giornali ai libri. Un caso editoriale che cambia lo stile del reportage.

di Vera Fisogni

Nell'Italia che ancora cerca di capire chi abbia voluto la strage di piazza Fontana a Milano (1969), solo per citare uno degli episodi più oscuri della storia della Repubblica, la "verità" giornalistica sembra vivere una stagione d'oro. E se i giornali perdono copie, in parallelo i libri-inchiesta o instant book, macinano pagine, conquistando lettori. Merito di titoli come "Metastasi", di Gianluigi Nuzzi e Claudio Antonelli, o la "Lobby di Dio" di Ferruccio Pinotti, solo per citare gli ultimi due best seller di Chiarelettere, casa editrice nata nel 2007, capace di rispondere al meglio alla richiesta di un giornalismo in grado di far luce sui problemi e sulle responsabilità.
Ma il successo del genere suscita almeno due interrogativi. Il primo riguarda l'evoluzione dell'inchiesta giornalistica, la seconda questione, più rilevante da un punto di vista filosofico, tocca da vicino i criteri di evidenza su cui poggiano questi libri, cioè, in ultima analisi, la loro pretesa di verità ed i riflessi sull'opinione pubblica.
Che molte di queste indagini siano per lo più sui generis, rispetto al metodo tradizionale investigativo, è un fatto, anche se resta intatto l'anelito allo scavo nei fatti, così ben tematizzato dal freschissimo libro di Gerardo Adinolfi ("Dentro l'inchiesta. L'Italia nelle indagini dei reporter", Edizioni della Sera, pag. 244, 15 euro). Alla ricerca originale dei dati di cronaca, tende a sostituirsi l'offerta di un materiale già pronto, in parte proposto da giornali e tv, come le intercettazioni ("Papi. Uno scandalo politico" di Marco Travaglio, Peter Gomez, uscito nel 2009); altre volte si tratta di documenti inediti d'archivio ("Vaticano Spa", di Nuzzi) o della testimonianza di un pentito considerato "attendibile" dalla magistratura (il già citato "Metastasi"). L'esigenza di rispondere alla domanda di un pubblico insoddisfatto dall'informazione di stampa e tv, impone tempi stretti di uscita. A un giornalista del quotidiano on line "Affari italiani", Marco Travaglio ha dichiarato di aver deciso («d'istinto») di scrivere il libro "Papi" (sullo scandalo Berlusconi-D'Addario) con i colleghi Lillo e Gomez solo una ventina di giorni prima dell'uscita del volume. Lo stare sulla notizia garantisce, soprattutto, visibilità mediatica, oltre all'approdo a trasmissioni come "Annozero" (Raidue) o "L'Infedele"(La7), ottima cassa di risonanza anche per il lancio del libro. Quanto alla regola aurea di accertare ciascun indizio con più riscontri, sul modello americano dell'inchiesta Watergate che portò nel 1974 alle dimissioni del presidente Richard Nixon, si rileva che ciò non sempre avviene. Proprio a "L'Infedele", nella trasmissione del 6 dicembre scorso, Santo Versace ha contestato pubblicamente a Nuzzi l'assenza di una simile verifica, a proposito delle dichiarazioni del pentito Giuseppe Di Bella relative ai rapporti del fratello stilista Gianni Versace con la 'ndrangheta. L'autore ha replicato di aver consegnato la prima copia del volume in Procura. I due interlocutori, a quanto si è appreso, si rivedranno in tribunale. Quale che sia la verità - e secondo il giudice Rosario Priore, «la verità giudiziaria non coincide mai con la verità storica» ("Intrigo internazionale", Chiarelettere) - quanto meno un'ombra si allunga sulla memoria dello stilista.
Un caso isolato di reportage è quello di Fabrizio Gatti de "L'Espresso", specialista nel cosiddetto «inside journalism», capace di assumere l'identità di un clandestino per raccontarne la storia ("Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini", Rizzoli). Nel novero delle inchieste che dalla tv tracimano invece alla carta stampata, ricordiamo quelle di Riccardo Iacona, autore de "L'Italia in presa diretta", un fortunato volume di Chiarelettere che riprende la trasmissione da lui stesso condotta su Raitre. L'aspetto più interessante collegato al fenomeno degli instant book è quello di testimoniare l'impegno alla denuncia: nella miglior tradizione del giornalismo, la loro aspirazione si incontra con una pretesa di verità. Una pretesa, appunto, perché della consistenza del vero dubita profondamente anche la filosofia, come ben argomenta Franca D'Agostini in "Disavvanture della verità" (Einaudi). Ma diamo pure per buono che il giornalismo afferri "qualcosa" di essenziale oltre a raccontare dei fatti. E chiediamoci se esista un divario tra l'indagine classica in cui ogni indizio viene acclarato da una o più prove (inchiesta Watergate) e le inchieste sulla base di atti giudiziari (parziali) o di dichiarazioni di (presunti) testimoni. Di sicuro c'è un differente uso delle fonti. Nel primo caso esse sono segrete, ma robuste perché incrociate con una varietà di riscontri; nel secondo caso le fonti sono palesi, enunciate e ribadite.
Se traducessimo tutto questo sul piano filosofico, potremmo concludere così: il primo è uno stile che procede per argomenti, il secondo poggia sulle "auctoritates", sull'autorevolezza (dichiarata) delle fonti; è una "fede".
Con quali conseguenze in chiave veritativa? L'inchiesta classica sembra assimilabile a un processo di inesausta ricerca di certezze, mentre in un certo tipo di instant book di successo risulta più difficile separare (qualcosa di) vero da (molto di) verosimile.

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