L'incredibile storia (vera)
del sommergibile a pedali

Nel '44 un gruppo di ragazzini ideò e realizzò un sottomarino per traghettare la merce di contrabbando dalla Svizzera. Gelosamente conservata nella memoria, quella vicenda ha ispirato il romanzo "L'ultima onda del lago" di Stefano Paolo Giussani (Bellavite). Per la prima volta il figlio di uno di quei ragazzi lariani, rievoca il racconto del padre. E' il regista Valerio Scheggia: gli ingredienti per un film ci sono tutti...

di Valerio Scheggia *


Durante la primavera del 2006, mi trovavo a Menaggio e stavo girando una serie di documentari tra l'Italia e la Svizzera, ero in macchina con Stefano Paolo Giussani. Stefano era l'autore e il conduttore di questo programma intitolato “45° parallelo”. Durante un trasferimento salendo da Menaggio in direzione di Porlezza arrivammo all'altezza della frazione Croce. Mi venne in mente una storia raccontatami da mio padre e chiesi a Stefano se conosceva la storia del sommergibile a pedali. Lui mi guardò incuriosito e mi rispose «no», affamato di curiosità. Fu lo spunto per raccontargli un evento di 25 anni prima. Mio padre si chiamava Ezio e purtroppo non può più rinfrescarmi la memoria, ma quello che mi disse allora fu così particolare - e da un lato anche divertente -, che si scolpì nella mia mente. Al punto da riaffiorare di tanto in tanto facendomi fare degli strani voli pindarci. Iniziai così a raccontare la storia di quello che, da quanto mi fu raccontato e dalle ricerche fatte, fu il primo sommergibile a pedali mai realizzato, che avrebbe dovuto navigare nel Ceresio nel 1944.
Era quasi sul finire della guerra e il cibo e altri beni di prima necessità scarseggiavano perché  razionati o irreperibili. A differenza di altri luoghi la zona di Naggio (Grandola ed Uniti) aveva una piccola fortuna, a pochi chilometri di distanza c'era la Svizzera e li si poteva trasportare a spalla ciò che in Italia mancava e viceversa. Molte persone che non andarono in guerra, per sopravvivere, iniziarono a fare i contrabbandieri. Era un lavoro pericoloso e veramente stancante; era l'epoca degli spalloni, che con le "bricolle" in spalla percorevano almeno due volte al giorno la strada che li avrebbe portati oltre il confine e ritorno. Il mestiere era redditizio, ma non per questo facile, anche perché per poter fare pochi chilometri per arrivare in Svizzera bisognava camminare almeno più del doppio passando per i crinali delle montagne o per sentieri accidentati. Tutto andava fatto schivando l'attento lavoro dei finanzieri e delle pattuglie naziste che pullulavano nella zona lungo il confine, perciò bisognava ingegnarsi  per esser più bravi di loro. «Era un gioco a guardie e ladri, loro non erano e guardie, ma non si sentivano neanche ladri», come avrebbe scritto Stefano più tardi nel romanzo uscito in questi giorni. Al tempo mio padre era poco più che tredicenne. Parlando con suo cugino di qualche anno più anziano, disse: «Ci dev'essere un modo per farla in barba alla guardia di finanza e ai soldati giù al confine».
«Sì, dovremmo inventarci qualcosa che loro non si aspettano».
Tanto ne parlarono, tanto ne discussero, che un giorno vennero colpiti dalla più originale delle idee che al tempo ci furono per fare del sano contrabbando: «costruiamo un sommergibile a pedali!». Loro vivevano a Naggio, lungo il confine italo-svizzero all'imbocco della Val Senagra. I laghi distano circa 8 km, quello di Porlezza a ovest, e il Lario a est, in direzione di Menaggio. Decisero di fare il loro cantiere sul lago di Como e si trasferirono a est. Non so come e non so in quanto tempo, ma immagino in almeno un mese, i due ragazzi con l'aiuto di alcuni amici riuscirono a costruire un imbarcazione tanto rudimentale quanto funzionante. Era una specie di doppia barca rovesciata una sull'altra con le estremità giuntate e con una specie di torretta. «Era veramente bella», mi raccontava mio padre. La vararono e, tra lo stupore di tutti, il sommergibile galleggiava. Già, galleggiava! Un sommergibile per essere tale deve poter navigare sott'acqua pensarono, perciò iniziarono a riempirla di zavorra, fino ad arrivare quasi a 300 chili. «Funziona!» esclamarono constatando che si inabissava fino al pelo dell'acqua diventando quasi invisibile. A quel punto i cugini avevano raggiunto il primo obiettivo ma si trovarono con un problema: estrarre la strana imbarcazione dall'acqua e trasportarla fino al lago di Porlezza. Non era impresa facile. Fu così che chiamarono un loro zio che aveva due cavalli. Riuscirono ad estrarre l'imbarcazione e a fatica la trasportarono lungo la salita che da Menaggio porta verso Croce. A metà percorso però si dovettero fermare perché i poveri animali erano stremati per lo sforzo. Nascosero come potevano il natante ed andarono alla ricerca di rinforzi. Il giorno dopo, trovati altri cavalli, li agganciarono agli altri e pian piano raggiunsero l'altopiano. A quel punto arrivare a Porlezza era quasi uno scherzo. Questo strano trasferimento non passò però inosservato, fece così tanto scalpore nella valle che, alle porte di Porlezza, anziché trovare un carico da portare in Svizzera, s'imbatterono nei finanzieri che sequestrarono tutto. Mio padre, che era minorenne, venne immediatamente mandato a casa e mio zio invece fu fermato dai militari. Non potendo fare un processo alle intenzioni, furono costretti a rilasciarlo. Dopo quel lavoro per tre anni non vidi più Stefano. Fino al capodanno 2009, quando ricevetti un sms di auguri e la richiesta del mio indirizzo email. Da lì a qualche giorno in posta trovai la seguente frase: «Ti va di leggere questa cosa? Vorrei avere una tua opinione».
Quella che lui chiamava “cosa” era il manoscritto che ora è diventato il libro "L'ultima onda del lago” (Bellavite). A distanza di tempo, ricordo ancora che rimasi esterrefatto a leggere quel racconto. Non solo lo divorai in una notte, ma Stefano aveva cucito sul mio ricordo uno dei più bei romanzi che io abbia letto. Sicuramente il giudizio è di parte, ma penso che sia giusto così, vero Papà?

(* Regista e autore televisivo, ora in tv con "Cerco casa disperatamente" su "Real Time")

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