E "Addio monti" diventò
"Adio montàgn!" in dialetto

Una versione nel dialetto di Premana (Lecco) del capolavoro di Manzoni si aggiunge alle numerose in altri idiomi e segue di 45 anni la versione del poeta comasco Piero Collina. Leggi sull'edizione de La Provincia di Como in edicola il 18 dicembre i contributi di approfondimento a questa notizia.

di Gianfranco Scotti

Tradurre capolavori della letteratura italiana nei vari dialetti della nostra penisola è impresa ardua che è stata tentata, spesso felicemente, da molti audaci autori che si sono cimentati con Dante, Tasso, Manzoni; operazioni irte di difficoltà e soprattutto esposte a un confronto pericoloso e destinato a essere soccombente.
Ma nelle intenzioni dei valorosi traduttori non alligna alcun sentimento di competizione, che sarebbe insano proposito, bensì il desiderio di volgere nella propria parlata materna opere immortali e di mettere alla prova la capacità del dialetto di farsi strumento di concetti elevati, a dispetto del pregiudizio secondo il quale solo la lingua italiana, in virtù della sua lunga e nobile tradizione e dell'autorevolezza di coloro che se ne sono serviti per dar vita a monumenti letterari, sarebbe in grado di rappresentare  compiutamente il pensiero degli scrittori.
Torna alla mente una frase contenuta in una lettera scritta dal Porta al figlio nella quale gli confidava che, se aveva osato scrivere componimenti audaci, l'aveva fatto per «provare se il dialetto nostro poteva esso pure far mostra di quelle veneri, che furon fin or credute intangibile patrimonio di linguaggi più generali ed accetti».
Nei primissimi anni dell'Ottocento, Porta si era cimentato nella traduzione dell'Inferno di Dante, spinto fors'anche dalla moda che aveva preso piede fra XVIII e XIX secolo, e che aveva spinto molti letterati a mettere alla prova la loro officina stilistica cimentandosi con le traduzioni. Prima di Porta il Balestrieri aveva affrontato la Gerusalemme Liberata volgendola in milanese. Ancora nell'Ottocento Francesco Candiani traduce in un sapido meneghino l'"Inferno" dantesco e nel Novecento sono almeno da citare la splendida traduzione della "Divina Commedia", sempre in milanese, di Ambrogio Maria Antonini e le due versioni dei "Promessi Sposi" di Marco Candiani e di Piero Collina.
Ed ecco ora vedere la luce una singolare traduzione in versi del capolavoro manzoniano, ad opera di Antonio Bellati, che si è avvalso del suo dialetto materno, il premanese, una parlata arcaica e assai interessante perché conserva reliquie del lombardo antico, vocaboli che ritroviamo nel milanese del Maggi, e siamo nel XVII secolo. In  questo dialetto arcano, che si differenzia in modo sensibile da quelli degli altri paesi della Valsassina e della Valvarrone, arricchito da una suadente musicalità, Bellati ha tradotto in squillanti endecasillabi la vicenda di Renzo e Lucia, un'operazione condotta con quell'abilità che gli riconosciamo, con un utilizzo sorvegliato delle straordinarie possibilità fonetiche e lessicali della lingua di Premana che fin dall'incipit rivela la sua armoniosa scorrevolezza: «Quèle gambe dól laach che da Varèna / la rüe a Léech tra dó fiil de montàgn / ch'és bagne i fiànch in-tè l'aque türchine, / d'ün'óre a las restrénsc: ün pónt de sas, / al fa parè che quìj mónt ai sé tóche…». Celeberrimi passi del romanzo, come quello della madre di Cecilia o ancor più l'addio monti sono stati affrontati da Bellati con una consonanza di sentimenti che lascia ammirati: «Adio montàgn che vegnii sü dal laach / e tochèe 'l céel cón scim sempre svarièe / ma cognosuü, da chi 'l v'è cresuü imèz, / com'ès cognós tüt él filo?omìi / di gent de ca!...».  Come osserva don Remo Bracchi nella sua illuminante presentazione, Bellati ha dovuto misurarsi anche con le difficoltà derivanti da due generi letterari opposti, il romanzo e la poesia che comportano modalità di narrazione e di rappresentazione assai diverse tra loro; un'impresa che Bellati ha affrontato con caparbia determinazione, superando gli immancabili momenti di sconforto che assalgono chi osi confrontarsi con testi che fanno parte del patrimonio culturale della nazione. «Non deve certamente essere mancato il coraggio, qualcuno potrebbe pensare perfino la temerità, ad Antonio Bellati, per lasciarsi frullare nella mente l'idea di tradurre da capo a fondo in endecasillabi dialettali "I Promessi Sposi"»; così inizia Remo Bracchi il suo commento all'opera del Bellati.
Il coraggio non manca certo al nostro autore, mosso da quell'amore per la sua terra che ha dato molti frutti, tributi d'affetto filiale nei confronti di una comunità alla quale si sente legato intus et in cute e  di cui ha saputo mettere in luce nel tempo la storia, le tradizioni, il prezioso patrimonio etnico, la specificità della lingua, come attesta il monumentale dizionario dialettale etnografico di Premana, altra impresa di largo respiro che Bellati ha condotto e portato a termine nell'arco di molti anni, consegnando agli studiosi e  agli appassionati, una pietra miliare nel campo della ricerca dialettologica lombarda. E
 ora questa bella, poderosa avventura dei "Promessi Sposi" vòlti in dialetto, un'ulteriore testimonianza della forte empatia fra l'autore e il paese che gli ha dato i natali. L'attaccamento dei premanesi al loro borgo arroccato alle falde del Legnone è ben noto; c'è una sorta di simbiosi che dura nel tempo, anche quando le vicende della vita li portano lontano, anche quando da più generazioni la famiglia si è trasferita altrove, i premanesi tornano al paese dove spesso hanno conservato la vecchia casa,  partecipano alle cerimonie, alle processioni, alle feste tradizionali che rinsaldano antichi legami.
Ci voleva poi il talento di un grande artista anch'egli intimamente legato a questo angolo di Lombardia, alle acque del lago e alle creste dei monti, ci voleva l'arte di Giancarlo Vitali per accrescere la bellezza, la singolarità, la godibilità di questo volume splendidamente curato da Paolo Cattaneo, sempre in prima fila quando si tratta di valorizzare il patrimonio culturale della nostra terra. Sono ben cinquantadue le tavole che raccontano per immagini la storia degli Spüüs prometuü, molte di grande formato e a colori,  e tutte colme di una poesia che sa tradurre e restituire in modo mirabile il dipanarsi della vicenda narrata nel romanzo. La bibliografia lecchese si è dunque arricchita di un'opera di largo respiro, un volume d'arte che è nel contempo una importante testimonianza linguistica, una bella impresa editoriale che  dobbiamo al talento di Antonio Bellati e di Giancarlo Vitali, due lecchesi ai quali va la nostra riconoscenza e la nostra ammirazione.

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