D'Annunzio e Barbara Leoni:
un amore travolgente

Nel 1887 iniziò la relazione fra il poeta e la giovane donna
Una passione totale che segnò anche l'opera del Vate

Gabriele D’Annunzio e Barbara Leoni si conobbero a Roma il 2 aprile 1887, a un concerto, presso il circolo artistico di via Margutta. Lei si chiamava in realtà Elvira Natalia Fraternali, era nata a Roma, in una buona famiglia della piccola borghesia, da Nicola e da Angela Pellicciani il 26 dicembre 1862, pochi mesi prima di Gabriele. A venticinque anni, quando conobbe Gabriele, era già una delusa del matrimonio. Assediata, pare, da un gran numero di ammiratori - era bella e intelligente -, tre anni prima, nel 1884, dietro pressione dei suoi, aveva sposato Ercole Leoni, un conte bolognese senza contea ma economicamente ben messo. L’unione, però, vuoi per la diversità di carattere dei due coniugi, vuoi per l’avversione nei confronti del marito sopraggiunta in seguito a un aborto che l’aveva resa sterile, era ben presto naufragata e la donna era tornata  a vivere con i genitori.

Anche Gabriele era sposato: aveva anche due figli, e la moglie, Maria Hardouin di Gallese, che aveva sedotta e sposata appena ventenne nel 1883, in quei mesi era in attesa del terzo. Ma moglie e figli per Gabriele non erano un problema e nei quattro anni trascorsi dal giorno del matrimonio e dalla nascita del primogenito, nel gennaio 1884, non gli avevano mai impedito di frequentare altre donne. Le occasioni non gli mancavano, come non gli erano mai mancate da quando, nel novembre del 1881, era arrivato a Roma dall’Abruzzo. Ma quello di cui, allora come poi sempre, aveva bisogno era una Musa stabile e, soprattutto, eroticamente disponibile, e questa non poteva certo essere  una donna qualsiasi.
A quell’epoca, nel 1887, egli del resto era già qualcosa più di una giovane promessa delle lettere italiane. Ma era, e si sentiva, ancora alla ricerca di se stesso.
Per vivere - e, soprattutto, per soddisfare quel "bisogno del superfluo" che era strettamente connaturato al suo raffinato estetismo - faceva il cronista mondano della Tribuna, un quotidiano romano. Ma era, a suo dire, un lavoro banale, che lo «distraeva troppo e sparpagliava e snervava troppo le sue forze», impedendogli di mettersi «a lavorare sul serio intorno a un lavoro lungo e d’importanza per lui capitale».

L’incontro con la bella Leoni, in quell’aprile 1887, avvenne insomma al momento giusto: valse a sottrarlo, almeno in parte, al disordine sessuale e sentimentale in cui si dibatteva e, anche, a incanalare in una direzione artisticamente più proficua le sue energie intellettuali. Per il momento, l’indomani dell’incontro al concerto di via Margutta, si può osservare solo che la donna non si negò all’avvolgente corteggiamento del giovane poeta e si lasciò rapidamente conquistare: anche lei, a suo modo, era in attesa di qualcosa o di qualcuno che venisse a sollevarla dalla situazione in cui si trovava; e che cosa c’era di meglio di un intellettuale per una donna che amava la musica, l’arte e la letteratura, e soprattutto amava sentirsi al centro di un’attenzione che non poteva non apparirle esclusiva? I due si baciarono per la prima volta «inginocchiati contro le grate» del chiostro dei Santi Vincenzo e Anastasio, «su la piazza del Fontanone», e poi, in breve, passarono a più gratificanti piaceri in luoghi forse meno suggestivi ma certo meno scomodi.
Barbara - come subito Elvira Natalia fu ribattezzata da D’Annunzio - o Barbarella o anche Ippolita, Miranda, Jessica, Bibli, Gorgone, Regina di Cipro o, con sensuale allusione, Vellutina, era certo, a ricostruirne oggi l’immagine sulla base delle fotografie e delle tante descrizioni contenute nell’epistolario, una donna interessante. Bella - bruna, con due occhi grandi neri, magra e pallida -, era anche colta e sensibile e, quel che per un uomo come D’Annunzio contava forse non meno, disponibile a ogni avventura e a ogni esperienza sessuale, anche la più folle. Del suo Gabriele, o meglio del suo Ariel o Ariele come per lo più lui si firma nelle lettere, lei fu sinceramente innamorata e a lungo si illuse di averlo quanto prima tutto per sé, in una vita semplice e sicura come quella che lui di continuo le faceva balenare dinanzi agli occhi.
D’Annunzio, da parte sua, se ne innamorò certamente, subito e di un amore appassionato ed esclusivo. Ma a giudicare dal suo comportamento e dallo stesso epistolario, nonché da quello che è sempre stato il suo modo di concepire l’amore, il suo fu più che altro un amore di sensi e di cervello, vissuto con un atteggiamento egoistico: cosa che, naturalmente, non escluse mai in lui, almeno fino a quando gli tornò utile, la passione, la piena disponibilità, l’estrosità, la generosità, come non escluse i tradimenti, ora smentiti con menzogne più o meno ingenue, ora mascherati sotto una valanga di promesse e di belle frasi. Fu, a ogni modo, un amore intenso, nel bene e nel male.
I giochi erotici cui i due amanti, entrambi nel fiore degli anni - venticinque lei e ventiquattro lui, all’inizio della relazione -, si abbandonarono durante tutto l’arco della loro storia, ne sono la dimostrazione più evidente. Puntualmente rievocati da D’Annunzio nelle lettere allo scopo di tenere alta la tensione sentimentale dell’amica, e negli ultimi tempi anche per eccitarla sessualmente, suggerendole l’idea che anche in virtù di essi il loro amore era unico ed eccezionale, questi giochi in cui la «rosa» e l’«amico della rosa» sono in varia guisa i protagonisti, rivelano insieme la sensualità esasperata del rapporto, l’inesauribile fantasia erotica del poeta e la straordinaria intesa dei due giovani. Non è certo un caso, a questo riguardo, se quello che tutti, una volta che ne ebbero anche solo una parziale conoscenza, consideravano «il più meraviglioso epistolario d’amore» fu spesso censurato nelle sue parti più spinte.
Così, mentre per Barbara iniziava una inebriante ma anche snervante avventura - appuntamenti volanti, appoggi logistici non sempre sicuri, ostilità da parte dei familiari e clandestinità del rapporto - di cui amava sapersi l’eroina e la testimone privilegiata, per D’Annunzio prendeva avvio, proprio dietro lo stimolo della passione per Barbara, una nuova fase della vita, sia sul piano sentimentale sia su quello intellettuale e artistico. L’amore, stando alle sue affermazioni, era per lui la molla del mondo. Il sesso, in particolare, come avrebbe scritto molti anni dopo, era il vero «levame della sua arte», cioè, alla lettera, il lievito che faceva fermentare in lui l’aspirazione artistica. E con l’amore e il sesso, e con l’equilibrio fisico e psicologico che gliene veniva, D’Annunzio tornò all’arte: nacquero in quei mesi, le prime <Elegie romane>, la raccolta poetica che nasceva proprio dalla rielaborazione in sede artistica della nuova relazione amorosa.

Nell’estate di quel 1887, proprio quando l’amore è appena sbocciato, i due amanti sono costretti a separarsi per le vacanze. Barbara si recò a Rimini con i familiari e D’Annunzio in Abruzzo. Di là, in settembre, il poeta che solo una volta può incontrare di sfuggita, a Rimini, Barbara, intraprende una "crociera" nell’Adriatico, sul cutter dell’amico Adolfo de Bosis. La meta è Venezia. Ma il cutter perde quasi subito la rotta e solo l’intervento dell’<Agostino Barbarigo>, una nave della marina militare, vale a salvare i due sprovveduti navigatori e a portarli a destinazione. Affascinato dalla bellezza della città lagunare, dove Barbara lo raggiunge verso la metà di settembre per un breve incontro, il poeta vi rimane un mese, benché non abbia soldi e da Roma gli sia giunto l’annuncio della nascita del terzo figlio, Veniero.
Di ritorno a Roma, riprende a vedersi con Barbara. L’epistolario testimonia la cadenza pressoché quotidiana degli incontri dei due amanti e l’ansia con cui li perseguono. D’Annunzio continua bensì a lavorare per La Tribuna, ma ormai è, e non solo emotivamente, pronto a dedicarsi alla stesura del vagheggiato romanzo. Di fatto, nel luglio 1889, si licenzia dal giornale e si trasferisce a Pescara e poi a Francavilla. Là, ospite dell’amico pittore Francesco Paolo Michetti, comincia a scrivere <Il piacere>. 

Federico Roncoroni

                       (1. continua)

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