Dietro l'ombra di Manzoni
Grossi si prende la rivincita

Tornano il libreria le poesie dell'autore che sferzò gli austriaci in lumbard. Lariano di Bellano, fu amico del Porta che, con don Lisander, ne oscurò il talento

di Basilio Luoni

Sappiamo che Stendhal di Milano e della Lombardia amava tutto: le strade odorose di letame fresco, le locande, i salotti, le alcove, le chiese, i musei, i teatri, la musica, persino i temporali, cui segue una «meravigliosa purezza dell’aria che viene ad accrescere i piaceri». È comprensibile: era la città della sua giovinezza, dei primi amori, erano i luoghi dove aveva avvertito aleggiare mille volte, sulle note di un’aria o di una cabaletta, la promessa del bonheur, della felicità. E se anche talvolta taceva la musica di Cimarosa e di Rossini, se la giovinezza tramontava, se il rosso dell’età napoleonica si spegneva nel grigio e nel nero della restaurazione austriaca, tuttavia un’eco di quella felicità continuava a risuonare nella lingua dei milanesi: il dialetto, lingua "naturale" quant’altre mai, esaltante come i suoni di una voliera dove gorgheggiassero innumerevoli Papageno e Papagena. Nel 1817, ormai padrone non solo dell’italiano di Toscana, ma del milanese e di alcuni altri dialetti, egli può andare in società e avere la ricompensa più dolce: essere accolto come uno di casa. «La conversazione continua come se fosse entrato un cameriere». Il francese si mette un poco in disparte, senza la smania di brillare che hanno i suoi connazionali, ascolta («preferisco ascoltare che parlare; è un vantaggio che tra l’altro compensa il mio disprezzo malcelato per gli sciocchi») e si offre il delizioso spettacolo della bonhomie lombarda: «Che naturalezza! Che semplicità! Come ciascuno dice bene ciò che sente o ciò che pensa in quel momento stesso! Come si vede bene che nessuno si preoccupa di imitare un modello!». Il dialetto è il respiro, e il profumo, di questa «esistenza municipale», di questa ideale repubblica dove le dame e le cameriere, i giovin signori e i facchini del sagrato del duomo schermagliano fra loro senza barriere sociali con le parole apprese alla comune «scoeura de lengua del Verzee».

L’ammirazione di Stendhal

Negli anni milanesi di Stendhal, il dialetto ha la fortuna di avere un interprete charmant come Carlo Porta. L’ammirazione del francese per lui è assoluta. Dopo la lettura del sonetto in morte del Bossi dichiara: «In una letteratura dove è ammesso questo grado di naturalezza e di verità, le anime aride sono messe alla porta dalla forza delle cose». Non c’è compiacimento letterario nel Porta, non c’è falso sublime. La parola è la cosa. In lui Stendhal sente la stoffa di Figaro e insieme del Masetto mozartiani: l’animo repubblicano, la mente lucidissima e implacabile, l’amore per la felicità e piaceri dell’esistenza, la difesa pudica -proprio anche attraverso l’impudicizia del verbo - dei sentimenti e della dignità di ogni essere umano. Massimo elogio, la sua lingua gli ricorda quella tutta nervi e sangue di Montaigne. Altrettanto ammirato è il Tommaso Grossi della "Prineide", «et pour cause»: il poemetto grossiano, cupo e grottesco come un’acquaforte del Goya (quello dei "Capricci" e dei "Disastri della guerra", per intenderci), offre una definizione perfetta del rapporto popolo-despota ottocentesco, quale ritroveremo nella "Chartreuse de Parme".
È un’occasione da non perdere quella che ci offre la nuova edizione delle "Poesie milanesi" del Grossi a cura del suo maggiore studioso, Aurelio Sargenti (Interlinea edizioni 2008, euro 20), che la dedica alla memoria di due grandi "lombardisti" da poco scomparsi: Franco Gavazzeni e Dante Isella. Torneremo a riudire la voce di un personaggio che il trascorrere degli anni e delle mode aveva messo in ombra e reso fioco. Colpa anche - se è colpa - delle prepotenti figure accanto alle quali egli ebbe la ventura di vivere, sempre un po’ di riflesso: il Porta e il Manzoni.

Lariano da esportazione

Nato a Bellano nel 1790, cresciuto amorevolmente da uno zio canonico a Treviglio, diventò amico del Porta, ormai oltre i quaranta, nel 1816. Fu l’amicizia di un giovane pieno di slanci, di ammirazione e di pudori, per un uomo maturo che gli si offre con l’attenzione, la complicità, la pazienza e la esperienza di un fratello maggiore. Si diceva "travaso d’anime", una volta, e raramente se ne ha l’impressione come leggendo le lettere dei due riunite dall’Isella nel carteggio della "Cameretta" portiana. Vi si ritrova la naturalezza e semplicità che Stendhal lodava nelle loro poesie, lo stesso esporsi senza remore, senza travestimenti e senza secondi fini. Per mimesi amorosa il Grossi diventò poeta (nonostante la disapprovazione dello zio), poeta in dialetto e "portiano" al punto da essere preso per lui, come dimostra la complicata affaire della "Prineide" (della cui paternità il Porta venne infatti sospettato dalla polizia), e da essere da lui accettato come collaboratore alla pari in varie occasioni (le più importanti: la comi-tragedia Giovanni Maria Visconti duca di Milano e le "Sestinn per el matrimoni del sur cont don Gabriell Verr con la sura contessina donna Giustina Borromea").
«Un fiume di latte che cammini in un canale lastricato di marmo»: l’esemplare definizione che il Grossi diede della poesia portiana vale anche per le sue migliori riuscite, se al fiume si sostituisca una vena meno imponente e copiosa. La tradizione francese e italiana settecentesca della favola, dell’apologo, del racconto filosofico trova in lui un epigono cui il dialetto fornisce uno strumento linguistico fresco, schiumoso, tiepido e trepido come il latte appena munto. Si legga, per convincersene, "I bragh del confessor salven la monega", rivisitazione di una novella del Boccaccio alla maniera di La Fontaine.
 O quel capolavoro che è "La pioggia d’oro", dove una fantasia aristofanesca immagina Orfeo e gli dei dell’Olimpo alle prese, «quand sto nost mund l’era ancamò bardassa, - in temp che l’era adree a cascià i prim dent» con una umanità ancora bruta. «Vegneven su de terra come i fong - linoeucc, tamberla, candirott, intregh, - negher, pelôs, con mezza spanna d’ong», e non servono, a convertirli alla religione, i balli da melodramma sulla scena del cielo, né gli intrattenimenti e giochi delle fiere popolari, ma la Carestia col suo codazzo di malanni e l’elargizione finale di «ballett d’or sugos e de savor»: tortelli all’uovo sostanziosi e fragranti. O ancora, nella "Prineide", i versi che fissano come in un’epigrafe al magnesio la diffidenza reciproca dei milanesi e dell’imperatore Franzeschin, «car padronasc»: «nun incapazz de fagh del mal a lû, -e lû incapazz de fann del ben a nun: -pien fina sora i oeucc de la virtù- de la santa pascienza e nun e lû», e quelli sulla Verità che non riesce a farsi ricevere a corte perché sprovvista dell’abito di cerimonia (vengono in mente le recenti traversie occorse nelle aule di governo a una Verità "desnuda" cui si è fornito in fretta e furia un reggipetto). Dove il Grossi non regge di fronte all’esempio portiano è nella creazione di storie e personaggi "romantici". Mentre il Giovannin Bongee, il Marchionn e la Ninetta del Porta escono dalle sestine e dalle ottave in tutta la loro prepotente modernissima realtà creaturale, la sua "Fuggitiva" rimane un esile fantasma da ballata patetica, da canzone popolare. Una occasione perduta, visto che lo sfondo e l’impianto della novella - gli anni del tramonto napoleonico, la campagna di Russia, una ragazza che fugge di casa per seguire, travestita, l’armata francese e l’amato colonnello - erano una egregia premessa a un racconto avventuroso e tragico alla Kleist o alla Stendhal, quel genere di racconto che il nostro Romanticismo non ha saputo darci. Nel 1821 muore Carlo Porta, e con lui la musa dialettale del Grossi, già avvilita e preoccupata dai fastidi censorii generati dalla Prineide. Nobilissimo canto del cigno possono considerarsi le sestine in morte, per l’appunto, del Porta. Qui lo sfogo per la scomparsa del grande amico trova, nel patetico racconto dei suoi ultimi giorni e delle sue ultime parole, una sobrietà e una misura che lo pongono a fianco, senza sfigurare, delle più commosse ottave del Tasso (per Grossi il poeta per eccellenza).

«Ciavo!» el m’ha ditt, «Sett chì cara el me Gross?» «Tel sêt che sont staa a fil lì per andà?» E dopo avè fiadaa: «Gh’hoo dii gran coss, Di gran notizi che te vuj cuntà»… L’è mort quater dì dopo, e hin staa quist chì I sò ultim paroll che mì ho sentuu: Chi sa che cossa el me voleva dì? Oh che consolazion se avess poduu Vedè el coeur d’on amis de quela sort Che l’eva tornaa indree del pont de mort! Ah che vun ch’el sia staa con quel stremizi, De vedess lì ridott a l’ultim pass, L’ha d’avegh de cuntà di gran notizi, L’ha d’avè vist el mond a revoltass,’ mudà color…

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