Foscolo, poeta innamorato:
dolce vita tra lago e Brianza

Tra Como e Verzago: una tormentata geografia sentimentale. La ricostruisce, sulla base di nuove ricerche, l'italianista Vincenzo Guarracino per "La Provincia"

Sarà stata anche la poesia e i "Cimiteri", intesi come tematica di un genere poetico molto in voga tra declinare del secolo XVIII e inizio del successivo, a favorirne frequentazione epistolare e poi sempre più stretta dimestichezza ed amicizia. Ma certo è che la vera frequentazione, quella domestica, si deve ad altra e ben altrimenti comprensibile causa (a conoscere il personaggio).
I fatti stanno così. Tra Ugo Foscolo (1778-1827), già romantico protagonista di tante storie vissute e disinvoltamente immortalate nelle sue opere (chi non ricorda le varie Isabella Teotochi Albrizzi, Luigia Pallavicini, e Antonietta Fagnani Arese, la celebre «amica risanata»?) e reduce dai controversi trionfi del carme dei Sepolcri (1806-07), e il conte comasco Giambattista Giovio (1748-1814), autore lui stesso di un’opera in prosa dedicata ai "Cimiteri", era fatale che, al di là di ogni divergenza ideologica (ateo dichiarato il primo, fervente cattolico il secondo), sbocciasse simpatia e amicizia, tanto da meritare al giovane letterato l’onore di vedersi accolto, ospite d’onore, nel Palazzo comasco, attuale sede del Museo civico in piazza Medaglie d’Oro, non meno che nelle ville del Grumello, sul lago, o di Verzago, in Brianza.
 È che al poligrafo conte premeva procurarsi un passaporto per l’immortalità e la via più facile doveva parergli quella di circondarsi di uomini illustri (come il Bertola, lo Spallanzani, il Cesarotti, il Pindemonte e buon ultimo, ancorché il più giovane, il Foscolo), che la Gloria l’avevano diggià conseguita. Meno scontato è che il fascino del poeta di Zante (o Zacinto che dir si voglia), già "bello di fama e di sventura" al pari del suo eroe Ulisse, finisse per esercitarsi (a stare almeno a quanto dice il Cantù) sulle tre donne di casa (Felicia, Vincenza e Franceschina), segnatamente su quest’ultima, la più giovane, inizialmente forse neppure notata, per la notevole differenza d’età (era nata nell’anno ’89), ma a poco a poco diventata oggetto di un’ardente passione ricambiata. Ma è che al cuore, come si dice?, non si comanda. E il cuore dei due protagonisti in questione era di una qualità molto particolare: incendiario, quello di Ugo, estremamente sensibile quello della candida e bionda "Cecchina".
Degna davvero di un grande romanzo è così la storia che ne nasce: una storia tipicamente romantica, tutta dubbiosi desiri dapprima e palpiti e sguardi, fino a giungere a rivelazioni ed effusioni, che da epistolari si fanno sempre più dirette, fisiche e concrete, con ardore di sensi e parole, sfidando ogni rischio, finanche quello della scalata notturna del muro di recinzione del Palazzo. Tutti tranne uno, però: dinanzi alla ventilata prospettiva del matrimonio (prospettiva fieramente osteggiata dalla madre di lei, ma vista con lusingata simpatia dal conte padre), Ugo fa rapidamente marcia indietro, atterrito anche dalle voci sempre più insistenti e pettegole che circolano sulla sua storia.
Passi per l’amore, «delicatissimo, eterno», che assicura e promette alla trepida Cecchina, ma il matrimonio no («Il mio atto di fede nel matrimonio sta nell’Ortis, che a una fortunata seduzione antepose una morte terribile e immatura», confessa alla contessa Chiara, il 29 settembre 1808): meglio - consiglia -, su tutta quanta la loro storia, un velo di «perpetuo silenzio» e «una virtuosa rassegnazione alle circostanze e a’ voleri de’...parenti». «Ho bisogno di dirvi ch’io v’amo, di dirvi ch’io non posso essere vostro mai», proclama in una lettera datata "Borgo Vico 19 agosto 1809, un capolavoro dell’epistolografia amorosa. «E come chiedervi in moglie, come separarvi da’ vostri parenti? Io non sono nobile, e voi vedete quanto profonda sia nella vostra famiglia, quanto superstiziosa e invincibile la stima a ogni titolo, a ogni idolo, a ogni ombra di nobiltà; ostacoli insormontabili, a cui si aggiunge l’avversione di vostro padre e della Contessa a’ miei principi religiosi e politici».
Pretesti o perplessità reali? Loro, i "parenti", hanno in realtà sulla ragazza ben più concreti e convenienti progetti, a dispetto di ogni suo assenso o sentimento. Fatto sta che la fanciulla, promessa a un colonnello francese, il barone Victor Vautré, più vecchio di lei di ben diciannove anni, alla fine consente a malincuore alle sue proposte e il 13 settembre del 1810 le nozze vengono celebrate nella cappella di casa Giovio. Qualche mese più tardi, Ugo, non si sa se per disperazione o per cinismo, confiderà a un amico: «Io prego il cielo che la mantenga nella perseveranza di mostrarsi moglie casta e fedele...».

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