Gli alpini incontrano gli studenti
Un ritratto privato e affettuoso

Oggi in 122 scuole del territorio comasco doneranno il tricolore e una pubblicazione che ricostruisce la storia del Battaglione Val D'Intelvi. Lo studioso e scrittore Federico Roncoroni tratteggia un profilo di questa " famiglia" 

Per anni, per tutta l’infanzia e l’adolescenza, tutto ciò che sapevo degli Alpini mi veniva dalle copertine della "Domenica del Corriere", conservate dal babbo, dalle figurine Liebig e da zio Ubaldino. Essenzialmente dalla zio Ubaldino, che era stato alpino, aveva combattuto sull’Adamello e negli anni trenta era anche stato richiamato in servizio per istruire le reclute in vista delle grandi imprese sognate da quello che lui chiamava il Mascellone.
Il suo cappello con la penna-d’aquila, diceva lui, di pollo diceva suo fratello- troneggiava sul comò della camera da letto, oggetto della venerazione della zia Isolina, che non si limitava a spolverarlo tutte le mattine, ma si faceva anche il segno della croce tutte le volte che ci passava davanti. Lo zio Ubaldino, quel cappello che ai miei occhi di bambino lo faceva somigliare a un indiano Apaci o Sioux, se lo piazzava in testa ogni volta che poteva: per partecipare alle cerimonie commemorative delle battaglie vinte e perdute, per presenziare a celebrazioni militari e poi, sempre più spesso negli anni, per dare l’estremo saluto ai commilitoni. E sia che avesse il cappello in testa sia che ne fosse privo, lo zio aveva la propensione a parlare sempre, se non soltanto, degli Alpini.
Così, da lui, per anni, ho ascoltato dapprima con curiosità e interesse e in seguito, a dire il vero, con una certa insofferenza, storie di marce massacranti al gelo, turni di guardia senza fine passati in trincea in mezzo al fango, attacchi e contrattacchi alla baionetta ed epici scontri con muli che erano più testardi di sua moglie Isolina. Mi raccontava anche le bevute omeriche cui lui i suoi amici si dedicavano ogni volta che potevano, e, ahimè, gli "scherzi" che gli anziani - i veci - facevano alle reclute - i bocia -, scherzi che mi riempivano di sdegno e che mi hanno fatto subito passare la voglia di diventare alpino. Poi però, quando, alla fine di ogni racconto, lo zio si faceva serio e ricordava gli amici morti durante questa o quell’azione o quelli tornati a casa mutilati, non c’era niente da fare: gli Alpini erano, anche nei racconti dello zio Ubaldino come nelle pagine di storia del Sussidiario, degli eroi: o per lo meno, degli uomini coraggiosi che avevano combattuto per noi, per il nostro Paese, talora eseguendo ordini sballati di comandanti incapaci, ma sempre ligi al loro dovere e sempre pronti ad aiutare i loro compagni, fossero muli o commilitoni. Lo zio Ubaldino era responsabile anche dell’altro versante dell’idea che mi ero fatta degli Alpini, quella basata, mi era chiarissimo, sull’equivalenza rimata "alpino=vino=casino", e la nutriva continuamente. Amava il vino e amava berlo, la domenica pomeriggio e la domenica sera, in compagnia degli amici, un po’ all’ "Unione Combattenti" e un po’, molto di più, nelle osterie che si trovavano sul percorso per tornare a casa: un percorso molto lungo e complicato, pieno di soste o, come diceva lui, di stazioni di rifornimento. Finalmente, verso mezzanotte la comitiva arrivava in via Carloni, preceduta da un lamentosissimo "Testamento del capitano" o qualcosa di simile. E in via Carloni, dopo una ossequiosa ultima fermata dal Berto, lo zio rincasava, saldo e dritto sulle sue gambe come se avesse bevuto gassosa, si buttava sul letto con le scarpe e il cappello e cominciava a ronfare che si sentiva per tutta la casa. L’indomani, alle 6.30, era in piedi, pronto ad andare in tintoria a lavorare.
Fino a che lo resse la salute, partecipò a tutte le Giornate dell’Alpino, in tutte le città del Nord Italia: il Centro e il Sud li aveva difesi già che stava difendendo il Nord, ma non erano terre fatte per lui: troppo disordine, troppa confusione, diceva. Alla Giornata che si tenne a Como, non ricordo in che anno, era in prima fila, con uno stendardo pieno di medaglie: ne era fiero, fierissimo e devo dire che anch’io, vedendolo sfilare in tanta gloria, mi sentii fiero di lui.
L’ultima volta che presenziò a una cerimonia fu in occasione - sarà stato il 1961 o il 1962 - del ritorno in città dei resti dei soldati caduti in Russia. Pioveva come se non avesse mai piovuto, quel giorno. Ero presente pure io, comandato sul posto come studente del Liceo e per fortuna protetto, per quel che si poteva, sotto l’ombrello di una gentile e bella compagna che, però, dopo mezz’ora che ci inzuppavamo, cominciò a puzzare in modo nauseabondo di lana bagnata. Lui, lo zio, era come sempre in prima fila, accanto alle autorità: invece dell’ombrello, aveva lo stendardo con le medaglie. Era vecchio, ma sempre fiero. Prese una polmonite e lui, che era stato a macero per giorni e giorni tra la fanghiglia, la neve e il ghiaccio, si era nutrito di sbobbe immangiabili per mesi ed era passato indenne tra le pallottole dei crucchi, fu sconfitto e portato via da uno pneumococco qualsiasi, insensibile sia alla penicillina sia alla sua alpinità. L’ultima volta che vidi il suo cappello con la piuma fu in occasione del suo funerale: era appoggiato sulla bara. Tutta qui la mia idea degli Alpini?
Certamente no, perché con il passare degli anni, il ruolo svolto dagli Alpini durante le due guerre mondiali in difesa dell’Italia, dei suoi confini e del suo buon nome mi si è venuto precisando sempre più chiaramente: un ruolo che li ha sempre visti in prima linea, con spirito di abnegazione e, soprattutto, con un ancora più grande spirito di sacrificio che, insieme ad un elevato grado di coraggio e di competenza, ha meritato loro onore e gloria e procurato, inevitabilmente, gravi perdite umane. Sempre con il passare degli anni, sono poi venuto a conoscenza di un altro aspetto della vita degli Alpini, e l’idea che avevo di loro si è ulteriormente arricchita. Anche in questo caso, il tramite per il nuovo passo avanti fu lo zio Ubaldino. Non lui di persona, che era morto da anni, ma dei suoi amici, anzi dai suoi soldati, dei suoi "uomini", come diceva lui. Fu appunto uno dei suoi "uomini" che me ne parlò: il Biglia, il burbero parrucchiere di via Carloni, il peggiore parrucchiere che abbia mai conosciuto, capace soltanto di raparti a zero con la macchinetta. Vedendolo lavorare in quel modo, mi venne in mente che forse aveva fatto il parrucchiere durante il servizio militare. Glielo chiesi e seppi che sì, aveva fatto l’alpino e che aveva imparato lì a fare quel mestiere. Poi, di discorso in discorso, gli dissi che anche un mio zio aveva fatto l’alpino e che aveva combattuto sull’Adamello e sull’Ortles-Cevedale. «E come ’l se ciama il suo zio?». Bastò il nome, Ubaldino, per commuoverlo e per suscitare in lui un’onda di ricordi che durò rapate e rapate. Lui, il Biglia, non aveva combattuto con l’Ubaldino, perché era del 1929, ma lo conosceva bene: aveva lavorato con lui tra la fine degli anni quaranta e tutti gli anni cinquanta, in giro per l’Italia: lo aveva affiancato, insieme a moltissimi altri commilitoni, in tutti gli interventi di quella che poi sarebbe stata la Protezione civile. Appena venivano segnalati un’inondazione o un terremoto o una qualsiasi altra catastrofe naturale, il gruppo dell’Ubaldino, prontamente attivato, partiva con i suoi mezzi e raggiungeva il luogo del sinistro: alzava tende di pronto soccorso e di ricovero notturno, punti di ristoro con enormi pentoloni, e tutti lavoravano, lavoravano, lavoravano. Secondo il Biglia, sì, «per scaldarsi e tenersi su», finita la fatica, bevevano e cantavano in allegria. Così lo zio Ubadino nell’agosto del 1951 era stato a Gera Lario, per soccorrere le vittime dell’alluvione, e nell’inverno di quello stesso anno fu nel Polesine sommerso dalle acque del Po.
Nel Polesine ci stette tre mesi, al punto che la moglie, la zia Isolina, cominciò a pensare che avesse trovato qualche giovane vedova da consolare, e quando tornò era ridotto a uno straccio, «come se tornava dalla campagna di Russia», diceva il Biglia, ma «contento come una Pasqua». E quando non c’erano emergenze, l’Ubaldino e i suoi lavoravano in zona: tagliavano piante vecchie e malandate, ripulivano il sottobosco, liberavano i corsi d’acqua dai detriti delle piene e davano una mano ai carabinieri nella ricerca delle persone disperse. Facevano di tutto, purché ci fosse da aiutare qualcuno. Che cosa ricordava, il Biglia, di quei tempi?
Qual era il sentimento dominante che animava quegli uomini che, non paghi di quanto avevano fatto in tempo di guerra, erano sempre pronti a darsi da fare, a impegnarsi e lavorare? «La roba pussé bela - traduco per comodità -, la cosa più bella era l’amicizia e la solidarietà tra noi. L’ubbidienza nei confronti del comandante. Non il comandante in senso militare, il capo, quello che consideravamo il più capace, quelli come l’Ubaldino. Poi la stanchezza, come dopo le marce, ma anche la soddisfazione, la gioia di fare qualcosa di utile… minga come …». «E oggi?», domando al mio amico Gesualdo, che non ama i gatti ma è un uomo generoso e sempre pronto, a settantasette anni suonati, a dare una mano a tutti, un po’ per natura e un po’ perché è un ex-alpino. «Oggi, l’è istess. Quando c’è bisogno, vemm». Tutto qui, perché è uomo di poche parole. Però mi fa notare che non «si dice mica ex-alpìn». Non esiste. Si dice «alpìn e basta». Già. Alpino una volta, Alpino per sempre

Federico Roncoroni

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