I cinque comaschi
che fecero l'impresa

In biblioteca incontro con i superstiti della storica scalata allo Yucay, che nel 1958 portò i comaschi a conquistare ben 11 vette peruviane 

Una Fiat 500, a quei tempi, costava meno di 800 mila lire (neanche 400 euro). Una Lambretta della Piaggio, nuova fiammante, la si portava a casa con poco più di centomila. Loro, che non erano ancora riusciti a comprarsi né la 500, né la Lambretta, di lire riuscirono a racimolarne addirittura 5 milioni. Era la fine degli anni ’50, il 1958 per la precisione e quei soldi servirono per compiere un’impresa rimasta nella storia.
Quattro mesi di spedizione alpinistica, due mesi sballottati in mare e due aggrappati ai ghiacciai, ma alla fine 11 cime dello Yucay, la montagna degli Incas in Perù, un nome lo ricevettero e, ancora oggi, è quello che loro decisero di dargli. Loro sono i cinque alpinisti del Cai di Como che scalarono quelle vette inviolate, esattamente cinquant’anni fa e questo evento storico verrà ripercorso questa sera, in biblioteca, con inizio alle ore 21. Non ci saranno tutti i protagonisti di quella scalata. Di anni ne sono passati tanti e sono sopravvissuti soltanto in due, Vittorio Meroni e Mario Bignami. Gli altri tre, Pierluigi Bernasconi, Luigi Binaghi e Mario Fantin si vedranno soltanto nella pellicola girata proprio da Fantin, l’alpinista cineoperatore.

Impresa da 5 milioni di lire

L’impresa comasca sulle Ande peruviane fu una delle prime spedizioni del dopo guerra, con un’impronta moderna nell’organizzazione e, in assoluto, la prima di un Cai locale. «Il nostro obiettivo principale, ciò che diede impulso alla spedizione - racconta Vittorio Meroni - fu il voler conquistare delle montagne ancora vergini e quelle undici erano davvero inviolate. Non erano nemmeno riportate nelle carte geografiche del Perù». Per quell’impresa ci vollero cinque milioni di lire e i soldi vennero raccolti tra una serie di sponsor comaschi, banche, associazioni, preti, industriali e quelle cime, come gesto di riconoscenza, ricevettero proprio un nome legato a quei sostenitori: dal nevado Bolonia, a ricordo della città di Fantin, al nevado Miguel Grau e poi i nevado degli Alpini, Guglielmo Marconi, Alberto Bonacossa, Innocenzo XI, Alessandro Volta, Ciudad de Como, Francisco Bolognesi e i Cerro Panathlon e Cao, dedicato al Club Alpino Operaio. Le undici cime battezzate dai comaschi sono tutte situate nella Cordigliera dell’Urubamba, a nord ovest della città di Cuzco, dove si trovano le vette maggiori del gruppo dello Yucay, variabili tra i 5000 e i 5650 metri.

In terza classe in Perù

«Per spendere meno, raggiungemmo il Perù in nave, rigorosamente in terza classe - commenta Meroni - e continuando a risparmiare su tutto, riuscimmo persino a tornare con un milione ancora in tasca. Quei soldi servirono proprio per realizzare il film che immortalò quell’impresa». «Il problema di quella scalata - racconta il presidente del Cai di Como, Vittorio Gelpi, che stasera consegnerà ai due alpinisti sopravvissuti un riconoscimento ufficiale - non erano tanto le difficoltà tecniche, quanto la non conoscenza del territorio nel quale ci si avventurava. Nessuna spedizione aveva fino ad allora raggiunto quella parte della Cordigliera; il poco che si conosceva era frutto delle informazioni dell’imprenditore comasco Curioni, da 15 anni a Lima, al quale erano state spedite, con mesi di anticipo, le casse con la maggior parte del materiale. Materiale d’avanguardia per allora: le prime tendine isotermiche biposto Moretti, gli scarponi Dolomite in cuoio, gli eskimo della ditta Mario Bucchini, primi piumini di piuma d’oca». «Quanto ai viveri - aggiunge Gelpi - tranne lo scatolame acquisibile sul posto, formaggio e salumi, con abbondanza di mortadella di Bologna, miele, frutta secca e sciroppata, the in bustine, polvere di cioccolato energetica, bombolette di gas. Più che le difficoltà alpinistiche, a rallentare la spedizione fu il fatto di essere dovuti penetrare in una zona sconosciuta. Sforzi suppletivi, premiati comunque dalle 11 vette scalate per la prima volta». L’impresa comasca rivivrà questa sera con la proiezione del filmato di Fantin e con la presentazione del libro "Yucay, montagna degli Incas", un volume della Tamari editore, ormai introvabile, che riporta il diario di viaggio dei cinque scalatori. Vittorio Meroni, di Como, allora 29 anni, perito elettronico, istruttore e accademico del Cai.
Un alpinista che nel suo curriculum ha collezionato oltre 2000 salite sulle Alpi e dieci spedizioni a 7000 metri. Lui assicura di aver scalato pure l’Everest, ma praticamente "de sfroos": quell’impresa venne infatti decisa praticamente all’ultimo momento e non avendo chiesto l’autorizzazione al governo, con pagamento di relativa tassa, ufficialmente il Meroni non è mai salito sull’Everest. Mario Bignami, 28 anni di Como, perito edile, ha dedicato la sua vita a costruire dighe, dodici anni in Perù e 10 in Turchia. E’ l’uomo che ha scritto il primo manuale multilingue di ingegneria idraulica. Pierluigi Bernasconi, 29 anni di Como, perito edile, accademico del Cai, definito dai compagni di viaggio il più simpatico del gruppo, fu un elemento essenziale nei momenti di maggiore difficoltà e sconforto. Luigi Binaghi, 68 anni di Como, capo spedizione insieme alla moglie Irene, nella vita faceva il pittore professionista e fu il primo comasco a diventare accademico del Cai, nel 1930. Infine Mario Fantin, 37 anni di Bologna, perito commerciale con la passione per la fotografia che inventò il mestiere del cineoperatore al seguito delle spedizioni alpinistiche, la prima nel ’54, quando Desio conquistò il K2.

«Potevamo morire»

Stasera, Como rivivrà quell’impresa, affascinante perché completamente diversa da quelle che vanno in scena oggi: cinque uomini soli, dodici chili di indumenti addosso e al seguito soltanto asini e lama per il trasporto bagagli. Cinque uomini per mesi completamente isolati dal mondo e dalle famiglie, senza nessun contatto radio, senza telefoni satellitari nello zaino o elicotteri in cielo pronti a soccorrerli. «Se qualcuno di noi si fosse fatto male, o gli fosse successo qualcosa - dice oggi Meroni - sarebbe morto lì, perché nessuno sarebbe stato in grado di portargli soccorso». Stasera, in biblioteca, nell’ambito di Parolario, due di loro racconteranno quell’impresa coraggiosa, forse persino temeraria, che ha scritto una pagina gloriosa della storia del Cai di Como.

Giuseppe Guin

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