I massacri italiani in Etiopia:
inchiesta di uno storico comasco

In libreria il saggio di Matteo Dominioni, ricercatore dell'Università di Torino, edito da Laterza, su una pagina dimenticata della storia del Novecento. Un'amministrazione sgangherata e feroce precedette lo "sfascio" dell'impero coloniale di Mussolini

«E se l’Africa si piglia si fa tutta una famiglia». Così cantavano e forse davvero pensavano tanti soldati italiani che si imbarcavano sulle navi alla conquista di un Continente Nero che non conoscevano per nulla ma che immaginavano come una sorta di Bengodi pronto - chissà perché - ad accoglierli a braccia aperte. Dalla fine del 1935 al 1941, in Etiopia - nel corso della più grande campagnia coloniale della storia che fu contemporaneamente il prototipo della più autentica "guerra fascista", e, dopo la vittoria, in un’amministrazione sgangherata e feroce, fino allo scoppio della guerra mondiale e alla rapida disfatta - incontrarono un’altra realtà, profondamente diversa, che li rese al tempo stesso vittime e carnefici.
Questa pagina di storia a lungo dimenticata quando non volutamente mistificata è al centro di uno studio del giovane storico comasco Matteo Dominioni che, in "Lo sfascio dell’Impero, gli italiani in Etiopia, 1936-1941" pubblicato da Laterza, sull’onda delle ricerche più recenti e sulla scorta di un’attenta documentazione non limitata allo scavo archivistico, ripercorre quelle vicende senza fare sconti alla retorica nazionalista e senza cedere alla tentazione di una malintesa e fuorviante carità di Patria, al mito di una specificità positiva (o meno negativa che per altri) del colonialismo italiano, che fu invece «né meglio né peggio dei colonialismi delle altre potenze europee, mantenendo comunque caratteristiche proprie». Fra queste, a fronte di uno spiegamento di forze e di risorse ragguardevolissimo, spicca fin dalla fase della conquista una profonda ignoranza (estesa addirittura alle carte geografiche lacunose, incomplete o semplicemente sbagliate) della terra che si voleva conquistare, dei suoi costumi, della sua storia, che non resterà senza conseguenze.
Altro dato peculiare, la centralizzazione assoluta del potere. A decidere è sempre Roma, sempre Mussolini, che non solo non appiana i contrasti fra enti e autorità che hanno responsabilità sull’Africa Orientale Italiana, ma li favorisce per mantenere una situazione di incertezza e di instabilità che lo vede arbitro assoluto. L’assimilazione perseguita a parole si rivela una favola, mentre tutte le strutture tradizionali etiopiche (ras) vengono private di qualsiasi capacità decisionale, con una scelta che si rivelerà pesantemente controproducente e tutt’altro che estranea alla nascita di una guerriglia antiitaliana capace di logorare nell’arco di cinque anni il nostro apparato bellico.
Matteo Dominioni esamina con particolare attenzione le vicende militari, le repressioni, le rappresaglie. E documenta puntigliosamente l’uso di armi chimiche, per tanti anni negato o avvolto in una cortina di silenzi e di dubbi, prima degli studi di Angelo Del Boca. Allo stesso modo, anche grazie a una ricognizione personale, dà conto di una delle stragi più efferate, compiuta nella regione del Gaia Zeret-Lalomedir, all’esterno di una grotta nella quale si erano asserragliati i ribelli, che furono stanati con l’aiuto di un reparto chimico che utilizzò gas venefici e urticanti. «Quando i superstiti decisero di arrendersi - scrive l’autore - gli italiani divisero gli uomini e i ragazzini dalle donne e dai bambini. I primi vennero mitragliati a gruppi di cinquanta sul ciglio del burrone. I bambini e le donne non sopravvissero a lungo a causa dell’iprite». Che fine avevano fatto quei canti, quella voglia di fare, con l’Africa "tutta una famiglia"? «Responsabile di eccidi e massacri - scrive Dominioni - fu una minoranza di bianchi, soprattutto sottufficiali e ufficiali al comando delle operazioni di polizia coloniale, di alcuni battaglioni coloniali e delle bande irregolari. Tuttavia, anche se non commettevano violenze e soprusi, anche i soldati avevano comportamenti sprezzanti delle tradizioni locali e assumevano atteggiamenti che generavano conflitti». In sostanza, «leggi concepite in modo poco chiaro, poteri autoritari e personale rozzo furono una miscela esplosiva».
I risultati si videro dopo l’attentato a Graziani del 19 febbraio del 1937, con un’ondata di repressioni, uccisioni, deportazioni in Somalia alle quali l’autore - «per numero di vittime e sistematicità delle repressioni… contro gli amara dal marzo al maggio 1937» - non esita ad attribuire la terribile qualifica di genocidio. Aggiungendo peraltro che «nei confronti degli altri gruppi etnici il fascismo applicò una politica di "divide e t impera", dispiegò grandi cicli di operazioni di controguerriglia, commise massacri ed eccidi, ma definire tutto ciò genocidio non è corretto sotto il profilo epistemologico e non corrisponde alla realtà storica». Resta, al di là delle definizioni, un bilancio storico - fatto di vittime militari e civili, di impiego delle armi chimiche, di sperpero di ingentissime risorse, di velleitaria affermazione dell’ "italiano nuovo" creato dalla retorica fascista - pesantemente negativo. L’Impero che doveva conferire all’Italia un ruolo di erede di Roma ne mise a nudo le miserie, i limiti, l’arretratezza culturale, e - in ultima analisi - anche il distacco fra la realtà e i bisogni di un popolo ancora largamente costituito da contadini e una leadership politica perduta dietro illusori e tragici sogni di grandezza.

Antonio Marino

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