I prigionieri di Menelik
Un'indagine comasca

Nel 1896 la sconfitta bloccò le mire espansionistiche in Africa. Lo storico comasco Dominioni esamina l'oblìo in cui è caduto l'episodio, anticipando ai lettori le sue più recenti ricerche

È dedicata ai prigionieri di Adua la nuova ricerca di Matteo Dominioni, docente all’Università di Torino ed autore del pluripremiato saggio «Lo sfascio dell’Imperio. Gli Italiani in Etiopia 1936-1941» (Laterza, 2008, 382 pag., 22 euro).


di Matteo Dominioni

Il 1° marzo 1896, in una conca nelle vicinanze del paese di Adua, le truppe italiane subirono una cocente sconfitta. L’avanzata - ordinata dal governatore dell’Eritrea Oreste Baratieri - venne ripartita su tre colonne (Albertone, Arimondi, Da Bormida), più una quarta di rinforzo (Ellena). Gli abissini, rispetto alle informazioni in mano dei comandi italiani, erano in numero preponderante e ben armati. L’imperatore Menelik II schierò in battaglia 120 mila uomini, Baratieri 17 mila (17 battaglioni nazionali e 6 coloniali).
Gli italiani non ressero l’urto e le tre colonne agirono isolatamente. Ellena raccolse i cocci. La ritirata, disorganizzata, si tramutò in un disastro. In battaglia e nelle fasi successive, i bianchi persero 300 ufficiali, 4.600 nazionali e 1.000 ascari, gli abissini tra i 7 e i 15 mila uomini. I prigionieri italiani furono quasi 1.500 i neri 800. Questi ultimi, reputati traditori, subirono l’amputazione di un piede e di una mano.

Scene impressionanti

Nei giorni immediatamente successivi alla battaglia morirono, per ferite e mancanza d’acqua e cibo, tra i 100 e i 200 prigionieri. Sul campo di Adua giacevano centinaia di corpi amputati, evirati, scuoiati, bruciati. Queste scene impressionarono i sopravvissuti, tra i quali si diffuse la notizia inventata di una fucilazione di circa 150 connazionali. La sera del 1° marzo i prigionieri furono portati negli accampamenti abissini dove subirono angherie e violenze, nei giorni successivi, ripartiti in due scaglioni, furono trasferiti ad Addis Abeba. Ufficiali e artigiani rimasero nella capitale etiopica, gli altri, suddivisi in piccoli gruppi o singolarmente, vennero affidati ai capi locali della regione dello Scioa. A pochi toccò la dura sorte di essere trasferiti in regioni lontane. La prigionia durò un anno. Si prolungò perchè Menelik voleva tenere in mano un’importante merce di scambio per la pace, la cui firma permise di far giungere aiuti ai prigionieri. Il governo inviò denaro, la Croce rossa distribuì vestiario medicinali e altri beni, un comitato di donne dell’aristocrazia romana aprì un sottoscrizione. I prigionieri superstiti (1.408) furono rimpatriati in 7 scaglioni. All’arrivo a Napoli vennero interrogati dai carabinieri. Negli archivi militari sono conservate queste testimonianze; centinaia di interrogatori o relazioni contenenti preziose informazioni sulla battaglia di Adua e interessanti note sulla prigionia in Etiopia.

La prigionia

Nel complesso la prigionia fu difficile durante il trasferimento da Adua ad Addis Abeba, e nel viaggio di rimpatrio. Alcune distinzioni però devono essere per lo meno accennate. Gli ufficiali che rimasero ad Addis Abeba non patirono alcuna restrizione. Per esempio ricevevano sempre il denaro inviato dall’Italia, erano invitati nel palazzo dell’imperatore per partecipare a celebrazioni e banchetti, nelle cause contro i locali avevano sempre la meglio. Anche artigiani e operai non se la passarono male. Oltre a percepire i soldi provenienti dall’Italia, venivano pagati dall’imperatore o da altri nobili per il lavoro d’officina o di muratura e arrotondavano con il lavoro nero. I soldati distribuiti per l’impero etiopico invece patirono per la mancanza di cibo, per le malattie e per le malversazioni dei capi. I soldi inviati da Addis Abeba spesso non giungevano a destinazione.

Una memoria "rimossa"

I prigionieri di Adua furono i testimoni del primo caso di prigionia di guerra dell’Italia unita. Il loro numero è basso se comparato con la prigionia delle due guerre mondiali ma ciò nulla toglie al significato della vicenda. Eppure si tratta di una storia rimossa e dimenticata. Come mai? Porre l’attenzione sulla prigionia di Adua significa mettere ancora oggi sotto dura critica la condotta politica e militare e le disastrose scelte di una classe dirigente diretta erede - paradossalmente ma neanche troppo - del volontarismo garibaldino.

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Fatti e misfatti
del colonialismo italiano

La battaglia di Adua, che pose fine alle operazioni militari della campagna d’Africa Orientale, ebbe luogo il primo marzo 1896 tra le forze italiane, comandate dal generale Baratieri e quelle dell’esercito abissino del negus Menelik II. L’Italia aveva stabilito una colonia in Eritrea e mirava a estendere la propria influenza sulla vicina Abissinia reclamando la concessione di un protettorato sul paese in base al trattato degli Uccialli, firmato da Menelik II nel 1889. Questi tuttavia rinnegò il trattato e il governo italiano, presieduto da Francesco Crispi (nella foto), passò a imporre la sua presenza coloniale con la forza: nell’ottobre del 1895 un contingente di 20000 uomini entrò in Abissinia occupando il territorio del Tigrè e costituendo due presidi: uno sull’Amba Alagi e un altro a Macallè. Menelik riuscì a radunare un esercito di più di 100.000 uomini; travolse i due capisaldi difensivi italiani e si accampò nei pressi di Adua. Sollecitato da Crispi, il generale Baratieri scatenò l’offensiva nella notte del 29 febbraio, ma il giorno dopo, nella piana di Adua, il suo contingente fu annientato dall’imponente esercito etiope. Il trattato di Addis Abeba, firmato il 26 ottobre 1896, sancì, da parte italiana, la completa indipendenza dell’Abissinia e il riconoscimento dell’Eritrea come colonia italiana. Sullo stesso tema, a cura dello storico comasco Dominioni, ricordiamo anche il libro «Prigioniero d’Africa. La battaglia di Adua e l’impresa coloniale del 1895-96 nel diario di un caporale italiano» di Carlo Diotti (Nodolibri 2006, €12, 50).

Manuela Moretti

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