Il capitano de Arce,
un don Rodrigo mai domo

Nel 1541 il militare spagnolo affisse a Como uno stemma che mise nei guai Carlo V

Rodrigo e Carlo V. L’immediatezza di sentimenti entusiasti e la raffinata ricercatezza delle parole a lungo studiate, le rudezze dell’uomo d’arme e il levigato ingegno del letterato: in che modo si poteva procedere, nella Como cinquecentesca, a rappresentare e ad esaltare il volto del potere? Quali immagini utilizzare? Quando giungevano notizie dal Lario, nei palazzi milanesi dai quali si esercitava il dominio sulla Lombardia di Carlo V doveva esserci sempre una qualche apprensione.
Ciò sicuramente si verificava se era implicato il governatore militare di Como, il capitano spagnolo Rodrigo de Arce. I comaschi ne sperimentarono a lungo i modi spicci, perfino le prepotenze.
Egli avrebbe dovuto tenere a bada gli svizzeri oltre i confini e sventare le trame filofrancesi che si fossero manifestate in città e nelle terre del lago: la sua irruenza lo spingeva però ad interferire nell’amministrazione civile. L’imperatore, cui alla fine si rivolse la cittadinanza comense per por termine ai soprusi, si mostrò clemente perché l’Arce era un uomo fedele, sebbene eccessivamente impulsivo.
Nell’agosto 1541 lo zelo ispirò a don Rodrigo di collocare sulla porta cittadina uno scudo marmoreo con le insegne del sovrano, procedendo però al suo solito modo: l’aquila di Carlo avrebbe stretto tra gli artigli il biscione di Milano e il leone di Spagna.
Si trattava di un’immagine minacciosa, capace di suggerire (o svelare?) che l’autorità di Carlo V si fondava sulla violenza. Da Milano giunse subito la reprimenda del Consiglio segreto che minacciò l’Arce: avrebbe imparato a spese sue come doveva essere lo scudo imperiale, con l’aquila che raccoglieva sul suo petto le insegne dei territori assegnati a Carlo dal diritto.
Gabriele Guarisco

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