Il racconto d'agosto de La Provincia:
"Il gioco della finanza" / 5

Liberto la domenica raggiunse il campo dove si sarebbe disputata la partita. Una gita tra gente semplice che all'improvviso si trasformò in qualcosa di diverso

Liberto mantenne fede alla sua risoluzione e si alzò dal letto, la domenica mattina, con una sola incertezza: quale sarebbe stato l’abbigliamento più consono per una partita di calcio? Mancava di esperienza in materia e non sapeva se questi raduni, in fatto di vestiario, aderissero o meno a una rigida etichetta. Alla fine optò per una giacca sportiva, pantaloni alla zuava e stivaletti a mezzo polpaccio. Completò l’equipaggiamento con un binocolo a tracolla e un taccuino.
Si sentiva pronto per mille partite di calcio e, pieno di ottimismo, saltò a bordo della corriera che doveva condurlo a San Clemenziano, il villaggio nel quale si sarebbe consumata la tenzone. Di buonumore, tollerò con grazia gli scossoni che l’automezzo inflisse alla sue membra scollinando su e giù per la campagna. Era una bella giornata: i campi ridevano sotto il sole, i contadini si asciugavano la fronte con ampi fazzoletti candidi e stormi di ciclisti affrontavano la strada nutrendosi soddisfatti di polvere e moscerini.
Presto la corriera lo depositò nella piazza di San Clemenziano e Liberto considerò la possibilità di fermare uno dei passanti per farsi indicare la direzione del campo sportivo. Capì subito che non ce n’era bisogno: non gli sfuggì il nesso tra la partita e il crescente numero di individui che occupava la piazza sventolando bandiere con i colori rosso e nero. Il medesimo accostamento cromatico si notava anche sui fazzoletti che portavano allacciati al collo e sui cuscinetti che alcuni di loro reggevano sottobraccio.
Di questa fauna locale Liberto non ebbe una cattiva impressione. Tutto gli ricordava una sagra paesana o una sorta di Palio in cui le contrade del villaggio si sarebbero contese un artistico drappo.
Si limitò dunque a seguire la folla. Trovò anche il tempo di rifocillarsi in un’osteria, dove gli venne servito dell’onesto pane e salame che accompagnò con acqua di fonte. Intorno a lui, seduti ai tavolacci di legno, altri indigeni commentavano i più recenti avvenimenti del borgo e Liberto apprese che Ninetta, la vacca del fattore Alfredo, presto avrebbe dato alla luce un vitellino. Il nostro giornalista finanziario era contento di sé. Accettare la sfida di Porfirio, dopo tutto, era stata una buona idea. Ne aveva ricavato un regalo inatteso: una gita fuori porta tra gente semplice che non avrebbe saputo distinguere un’obbligazione da una carriola di stallatico. Una boccata d’aria fresca, dopo che per tanto tempo era rimasto bloccato nell’impasse Morletti-Transalpe/Gangini-Lepontina.
Finì il panino e, regolato il conto, si rimise sulla strada. Presto si trovò seduto sulla tribuna eretta a lato del campo sportivo. L’aver riconosciuto senza esitazioni il rettangolo di gioco riempì Liberto di fiducia in se stesso. Quali difficoltà avrebbe mai potuto incontrare nello scrivere un articolo dedicato a niente più che una gita in campagna? «È un gioco da ragazzi», pensò. «Una bazzecola».
La tribuna andava riempiendosi di spettatori e Liberto credette di trovarsi in un pic-nic insolitamente affollato dove, invece che disperdersi in letizia sul prato, i partecipanti preferivano per qualche ragione raggrupparsi ai margini di esso. Qualcuno, a confermargli questa impressione festiva, gli offrì un assaggio di torta salata agli spinaci. I buoni paesani di San Clemenziano agitavano le loro bandiere rosse e nere mentre un gruppetto di individui collocato sul lato opposto del campo rispondeva sbandierando vessilli di diverso colore. Doveva trattarsi dei sostenitori della Real Torpedo, pensò Liberto, fieri di mostrare una particolare inclinazione per il bianco e il blu. E sorrise con indulgenza a questa innocente manifestazione di campanilismo.
Controllò l’ora: mancavano pochi minuti alle 15. Dall’affollamento creatosi in un angolo del campo capì che le squadre erano ormai pronte. In due file separate, i giocatori trotterellarono verso il centro del terreno di gioco e lì si schierarono. Liberto ne contò undici per parte ma decise di non essere troppo fiscale: «Due squadre di una decina di giocatori ciascuna», annotò mentalmente. Le squadre vennero raggiunte da tre signori in completo nero e Liberto ne approvò la sobrietà: le maglie colorate dei giocatori, infatti, erano a suo giudizio troppo chiassose. Tutto sembrava pronto per l’inizio della partita. Le squadre si disseminarono sul campo riservandosene, con grande civiltà, una metà esatta per ciascuno. Il pubblico applaudì brevemente e ci fu un ultimo sventolio di bandiere.
Liberto cavò di tasca il taccuino e controllò che la matita fosse ben appuntita. Si poteva incominciare.
Il più autorevole dei signori in nero portò un fischietto alle labbra cavandone un trillo.
Fu il segnale.
La folla accanto a Liberto si alzò all’unisono e, mentre i giocatori si mescolavano sul campo senza alcun ordine apparente, la tribuna - fino a un istante prima serena e festosa - divenne teatro di un sabba infernale. «Picchialo, forza. Uccidilo!», gridava all’indirizzo del campo un energumeno alla destra di Liberto. «Strangolalo, dannazione. Spaccagli una gamba!», gli faceva eco un altro alla sua sinistra.
Non erano questi gli unici spettatori ad abbandonarsi a una condotta tanto riprovevole. Tutto il pubblico sembrava in preda a frenesia satanica. Sul campo il pallone si muoveva in linee spezzate dalla continua interferenza di piedi piuttosto che di teste, di stinchi piuttosto che di costati. Da tutto ciò la folla sembrava trarre un piacere orgiastico. Senza alcun riguardo, Liberto veniva spintonato qui e là mentre nelle sue orecchie risuonava il turpiloquio più inaudito.
«Finiscilo, ti ho detto! Staccagli la testa!», urlava una donna scarmigliata.
Il pallone venne infine scagliato oltre una delle estremità  del campo e si impigliò in una rete da pesca stesa ad asciugare.
«Goal», urlò la folla. Liberto si sentì afferrare da mille mani. Individui mai visti prima giunsero al punto di abbracciarlo e un signore barbuto si credette autorizzato a baciarlo sulle guance. Strattonato da ogni parte, perse il taccuino e la matita finì rotolando chissà dove. Il binocolo, strappatogli dal collo, sparì dalla sua vista. Spettinato e sgomento, cercò di raggiungere l’uscita ma venne ricacciato indietro e di nuovo si trovò a fronteggiare il campo.
«Uno a zero per noi», gli urlò nelle orecchie l’energumeno alla sua destra. «Adesso sì che comincia a scorrere il sangue!».

Mario Schiani

(5 - continua)

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