Il silenzio degli innocenti
Guerra all'indifferenza

Al Festivaletteratura di Mantova <suite Sarajevo> del comasco Moreno Gentili
<Ricostruisco i giorni dell'assedio e replico alle tesi dello scrittore Handke>

Il nuovo libro di Moreno Gentili, <Suite Sarajevo> (Archivi del ’900, pagine 105, euro 12), dedicato alla devastante guerra dei Balcani, e presentato sabato 6 settembre al Festivaletteratura di Mantova, sembra quasi che avesse previsto l’arresto di uno dei principali responsabili delle stragi, Karadzic, trascinato di fronte alla Corte dell’Aja dopo anni di latitanza. Un atto di giustizia per le vittime: «I colpevoli non restano mai impuniti - ha commentato per La Provincia Gentili, 47 anni -. Questo deve essere un messaggio forte e chiaro per i giovani».
Nel libro, il messaggio è reso più coinvolgente dalla struttura del testo, che segue tre piste narrative: il resoconto di un Narratore, la tormentata presenza di un Testimone, la sofferta esperienza di due coniugi prigionieri dell’assedio di Sarajevo. Nel corso degli anni, l’autore comasco ha alternato il lavoro come fotografo «di pensiero» a quello di scrittore: qui Gentili sembra aver raggiunto una sintesi tra i due mezzi di comunicazione, passando «dalla realtà dell’immagine all’immagine della parola», per riprendere una sua definizione. Una parola che è «immagine» di persone vive nel momento in cui agiscono, soffrono, amano con la forza comunicativa di un’istantanea e la persuasività di un discorso diretto, privo di orpelli letterari. Per chiarire meglio forma e contenuto del libro, abbiamo rivolto alcune domande all’autore.
In «Suite Sarajevo» il personaggio del Testimone è evidentemente l’autore, che esprime tutta la sua frustrazione per non aver saputo o potuto intervenire per far cessare il massacro. Perché ti sei sentito così coinvolto e in quale circostanza hai potuto seguire gli eventi che hanno dilaniato l’ex Jugoslavia?
Le risposte sono in questo caso molteplici. «Frustrazione» è una esatta interpretazione dei sentimenti espressi nel ruolo di testimone, ma aggiungerei anche amarezza e una certa, incontrollabile, forma di paura di fronte all’orrore della guerra, di ogni guerra. Non occorre certo essere pacifisti per avere paura della guerra. Ma nemmeno si può pretendere che ognuno reagisca in maniera analoga di fronte a un conflitto, anche se non ne è direttamente coinvolto. Ecco allora apparire frustrazione, amarezza, paura, proprio perché di fronte a un massacro come quello perpetrato nella recente guerra dei Balcani le risposte sono molteplici. Frustrazione perché dopo le esperienze terribili del nazifascismo si sono visti gli stessi principi di odio etnico abbattersi nella moderna Europa; amarezza perché come persona ho potuto constatare la mia personale debolezza di fronte a una emergenza a cui altri volontari hanno risposto in modo più efficace del sottoscritto; paura perché la guerra era così vicina che nel golfo di Trieste, dove mi trovavo, si sentiva a volte il rombo dei cannoni portati dal vento. Come uomo e come europeo informato dei fatti, mi sono sentito coinvolto e, di conseguenza, ferito da tanto odio.
Il sentimento che impregna tutta l’azione dialogata è quello di deprecazione per il comportamento assenteista dell’Europa. Questa posizione estremamente critica è la vera ragione delle «Risposte a Peter Handke» che hai posto come sottotitolo al volume?
Handke è uno degli scrittori più importanti della mia formazione di artista e intellettuale. La sua difesa della Serbia negli ultimi anni mi ha colpito e sorpreso, non tanto perché personalmente ritenga la Serbia più colpevole delle altre parti della ex Jugoslavia coinvolte nel conflitto, piuttosto perché proprio nella storia dei Balcani sono evidenti determinazione, fierezza e volontà di dominio (della Serbia): il che riversa anche una certa responsabilità nella violenza dell’ultimo conflitto. Il punto da cui parto per rispondere a Peter Handke è la frase di Camus in apertura del libro, ovvero «quando saremo tutti colpevoli sarà la democrazia». Ecco, un modo per discutere di responsabilità a tutti gli effetti: siano queste serbe o croate, ma anche bosniache, europee e internazionali.
L’obiettivo di quest’opera e della sua particolare tessitura dialogata è quello di condannare l’atrocità delle guerre in generale e, in particolare, dei conflitti che scavano abissi fra persone che fino ad allora erano vissute in comunità. Rappresenta bene questa terribile situazione la coppia di sposi costretta a nascondersi per scampare all’eccidio...
Sì, le guerre sono tutte orribili e provocano profughi di ogni parte in causa. Nel caso della guerra interetnica dei Balcani, questi spostamenti hanno addirittura modificato le geografie umane di interi territori ma c’è di più: proprio queste «geografie del territorio» sono state causa di massacri quali Szebrenica e Sarajevo. Ciò la dice lunga di quanto - proprio in Europa - siamo ancora lontani dal saper accettare la persona di diversa cultura e provenienza. Nella «nostra Europa» parliamo di tempi di pace, mentre nella guerra dei Balcani erano tempi di guerra e si è visto come è finita. «Finita»? Beh, non del tutto, perché il Kosovo è ancora una polveriera (etnica) pronto a esplodere, almeno fino a che non si decide di intervenire, questa volta diversamente dall’inizio del conflitto.

Alberto Longatti

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