La Resistenza vissuta
dalla gente comasca

Il Comasco, area strategica, era poco colpito dai bombardamenti, ma non mancarono le incursioni
Mancava l'acqua, scarseggiavano il gas e la legna, dilagarono il contrabbando e il mercato nero

Freddo, fame, bombe, contrabbando e mercato nero. La vita quotidiana nel comasco, negli ultimi mesi di guerra prima del 25 aprile e della Liberazione, non appare tanto diversa dal resto dell’Italia. Eppure il territorio del Lago di Como mantiene un carattere assolutamente specifico nella storia di quei giorni, quasi predestinato a essere il teatro principale degli ultimi accadimenti, specialmente dopo l’8 settembre, quando era diventato una via di salvezza per militari sbandati, prigionieri anglo-americani, ebrei italiani e stranieri.
L’importanza strategica della regione frontaliera (a Como è insediato il generale Hans Leyers, braccio destro di Albert Speer per gli armamenti e la produzione bellica), non deve tuttavia far dimenticare la misura dello sconvolgimento sociale ed economico provocato dalla guerra. La provincia è una delle aree meno colpite dai bombardamenti aerei, a differenza della vicinissima Milano, bersagliata quasi tutti giorni. Eppure non mancano momenti di angoscia e misure preventive contro eventuali incursioni aeree: il 30 settembre 1944 un violento bombardamento si abbatte, ad esempio, sulla periferia di Erba, colpendo case e cascinali. L’obiettivo degli americani è distruggere un deposito di carburanti. Il primo tentativo però fallisce e gli aerei tornano il giorno successivo compiendo un nuovo attacco: l’accantonamento di benzina è incendiato, ma anche il centro abitato subisce danni con 77 morti e più di 200 feriti. A Como, invece, vengono disposti alcuni rifugi antiaerei, il più importante è situato sul retro delle mura fortilizie di via Nazario Sauro. La città fortunatamente viene risparmiata, anche se negli ultimi giorni di guerra (soprattutto con il concentramento di truppe nazi-fasciste in fuga) il pericolo di un’incursione diventa reale. Solo il 23 aprile, poco prima di mezzanotte, bombe e spezzoni incendiari vengono fatti cadere su Como, nella zona di San Martino, ma il danno è ridotto: due morti e due feriti. Più che altro un tiro a segno di nessun rilievo militare. Altre 28 vittime, invece, le provocherà il 28 aprile, a guerra finita, un bombardamento (ancora oggi senza spiegazioni) sulla Tremezzina. 
Parafrasando quindi il titolo di un importante studio di Vittorio Roncacci (basato su materiali e documenti conservati dall’Istituto Pier Amato Perretta di Como) la calma del lago è del tutto apparente. Alla popolazione manca regolarmente l’acqua. L’assegnazione di carbone per alimentare i gasometri appare carente, tanto che già nel 1943 un lettore de La Provincia lamenta che "dopo la recente ennesima riduzione del gas in molte case si è ridotti a non poter più cuocere la minestra né a far scaldare il latte". Con l’inizio dell’inverno del 1944 la mancanza di carbone e legna induce molti ai furti nei boschi, e addirittura alcune volte chi viene sorpreso in flagrante accetta di lasciare il suo carico e preferisce la denuncia al freddo. I viali cittadini progressivamente si spogliano: «Da via Guanella - si legge su La Provincia del 24 gennaio 1945 - sono scomparsi gli alberelli che l’ornavano. Quelli di via Fiume stanno per subire uguale sorte".  
Il tracollo dell’economia legale, del resto, apre la strada al contrabbando e a un dilagante mercato nero, che nel comasco appare particolarmente incisivo. La formazione di un’economia illegale, tuttavia, è proprio una delle condizioni che agevolano il funzionamento delle strutture della Resistenza. Il personale che opera il contrabbando infatti alterna i traffici consueti con missioni speciali, come l’approvvigionamento delle bande partigiane, il passaggio in Svizzera dei perseguitati politici, ebrei ed ex prigionieri alleati (per ogni prigioniero venivano date al «passatore» dalle 100 alle 200 lire) o semplicemente l’incarico di far recapitare in Italia materiali clandestini.  Per queste missioni il Cln si vale dei contatti maturati dal Pci, durante la militanza clandestina, ma anche di una fitta rete di religiosi. Come quel don Gino Facchinetti, parroco di Santa Maria Rezzonico, che riuscirà a far espatriare in Svizzera ben 500 persone, fino a quando nel 1944 non sarà scoperto e costretto anch’esso a scappare oltreconfine.

Alessio Conca

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