<Pronomi più semplici
e solo verbi regolari
Ecco come parleremo>

Federico Roncoroni: <La grammatica di 20 anni fa è superata
E fra un secolo la nostra sarà la lingua di una minoranza>

L’italiano è morto, viva l’italiano. Mentre si celebra l’ottava edizione della Settimana della lingua italiana nel mondo (20-26 ottobre), l’idioma tricolore continua nella propria inarrestabile trasformazione. «La grammatica che ho scritto nell’86 oggi non va più bene», spiega Federico Roncoroni, con oltre due milioni di copie il più venduto autore - fra le molte qualifiche - di grammatiche della lingua italiana, per la scuola e non.
Professor Roncoroni, si associa alle celebrazioni per la Settimana della lingua italiana?
<Mi fa sorridere, la settimana della lingua italiana: come mi fanno sorridere la Festa della donna o la Festa del tartufo d’Alba. Cosa faranno, in questa settimana? Staranno tutti zitti? Cercheranno di parlare correttamente? O si daranno ai convegni?>
Eppure la lingua, la grammatica, è il suo mestiere. Quando ha iniziato a occuparsene?
<La prima volta è stato nell’86. Ci ho messo due anni: e ho giurato a me stesso e al mio editore, Mondadori, che non l’avrei fatto mai più>.
Perché?
<Fare una grammatica della lingua italiana è come cercare di ripulire dai detriti un torrentaccio impetuoso e poi arginarlo perché vada verso il suo sbocco naturale, che è la comunicazione, in modo disciplinato e regolare. Non è una cosa semplice>.
Eppure non risulta che lei da allora abbia smesso di occuparsi di grammatica...
<Anzi, direi che non ho fatto altro. Questo perché una grammatica è un po’ come un giornale: è un testo che dura un certo periodo di tempo e poi diventa obsoleto. Inoltre, l’apprendimento della grammatica si sviluppa a spirale, parte da un nucleo o poi va sempre più su, acquisendo e consolidando sempre maggiori competenze, e non arriva mai a una conclusione. Insomma, non è mai finita>.
Infatti l’ultima riedizione della sua «Grammatica essenziale» è di pochi mesi fa...
<Ma la cosa più affascinante è il fatto che la prima che ho scritto, quella dell’86, quella che io chiamo editio maior, oggi non è più valida>. La nostra lingua è cambiata in modo così radicale?
<Sì, ma prima ancora è cambiata la grammatica: fino agli anni ’50-60 era prescrittiva, aveva come riferimento l’uso letterario della lingua, e considerava scorretto tutto ciò che si collocava al di fuori di quelle indicazioni; adesso la grammatica descrive la lingua così com’è, dà indicazioni d’uso ispirate alla chiarezza espressiva, ma con contorni variabili>.
Quindi è meno rigida?
<Considera più variabili. Ci sono forme legittime in una certa situazione comunicativa e non in un’altra: una volta si condannava in toto "a me mi piace", oggi si riconosce che questa espressione in una situazione colloquiale è molto efficace; ma dobbiamo anche dire che in una lingua di tipo formale è assolutamente errata. Bisogna modulare il linguaggio anche in base all’interlocutore, all’età, persino allo strumento con cui si comunica. Non si parla più di errore in quanto tale, ma di opportunità di uso in base al contesto.
Niente errori, dunque, ma tanti cambiamenti: quale ha inciso di più?
<L’ambito che è cambiato di più rispetto agli anni Ottanta è quello dei pronomi personali. Nella prima grammatica scrivevo che la terza persona singolare maschile era "egli" e il femminile "ella", e sottolineavo che nel parlato si stavano affermando le forme "lui" e "lei". Ora ho dovuto ribaltare completamente il concetto: i pronomi personali sono "lui", "lei" e "loro" per il plurale, mentre "egli", "ella", "essi" ed "esse" sono forme disusate e letterarie, evitate anche dagli scrittori... Lo stesso vale per "gli" nei complementi di termine: si usa sia per il singolare (a lui) sia per il plurale (a loro)>.
E il congiuntivo? Dobbiamo rassegnarci alla sua perdita?
<L’opposizione fra indicativo e congiuntivo è andata a farsi benedire, ed è un fenomeno inarrestabile perché i congiuntivi sono difficili e quasi tutti irregolari. Purtroppo così va perduto un capitale enorme dal punto di vista dell’espressività. Non si usa più neppure il sistema congiuntivo-condizionale nel periodo ipotetico: ormai anche i più avveduti si sono resi conto che dal punto di vista comunicativo non c’è differenza tra "se andassi in Africa ti porterei un regalo" e "se vado in Africa ti porto un regalo".
Insomma c’è un appiattimento sull’indicativo...
<E sul presente: diciamo "domani vado a scuola" anche se dovremmo dire "andrò", perché il termine "domani" è sentito di per sè come un elemento che proietta l’azione nel futuro. Ma la confusione è generalizzata: molti sbagliano a usare il gerundio, che dovrebbe essere utilizzato solo se il soggetto della subordinata è identico a quello della principale: "essendo malato non vado a scuola" è corretto, "essendo malato mio padre non mi fa uscire" no, a meno che il malato sia il padre... Ancora: non facciamo più differenza tra "perché" e "poichè", cioè tra congiunzione finale e causale. E abbiamo perso il senso implicito dei superlativi: "intimo" significa già "la cosa più interna", eppure ci siamo inventati "più intimo"...
Anche la sintassi ha subito modifiche?
<Certo, la coordinazione ha quasi fatto fuori la subordinazione, perché quest’ultima implica un uso di tempi e modi difficile da gestire>.
Dove porterà questa evoluzione della lingua?
<Ci sarà un’ulteriore semplificazione del sistema dei pronomi sul modello inglese, e anche i verbi irregolari finiranno con l’essere modellati su quelli regolari. C’è chi addirittura ritiene che si arriverà a coniugare "io ando, tu andi, egli anda"... Poi ci sarà l’eliminazione o la forte attenuazione dei valori modali dei tempi dei verbi: da tempo abbiamo sepolto il trapassato prossimo e quello remoto. Ma la cosa più grave sarà il progressivo impoverimento lessicale della nuove generazioni. La grande sfida della scuola in questi anni e nel futuro sarà proprio l’arricchimento del vocabolario dei giovani.
Come sarà quindi l’italiano del futuro?
<Si calcola che tra 100-150 anni l’italiano scomparirà, cioè diventerà una lingua di minoranza di una realtà periferica dell’Europa o nel mondo occidentale: una lingua con alle spalle una grande letteratura ma usata solo in ambito locale, come del resto succede adesso, e familiare. Ovviamente gioca il fattore demografico, che ci vede soccombere numericamente ad altri paesi, ma non solo: la diffusione della lingua rispecchia anche il peso economico e politico della nazione che la esprime. Ecco: a fronte di questo scenario non è che la Settimana della lingua italiana cambi qualcosa... anzi, contribuisce all’idea che si stia cercando di difendere un esemplare in estinzione>.

Barbara Faverio

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