Ma Gertrude non doveva
essere reclusa nel chiostro

La tragica protagonista dei "Promessi sposi" riscoperta dalla nuova edizione degli atti del processo giudiziario, svoltosi nel '600, che ispirò Manzoni

È in libreria la nuova edizione di «La monaca di Monza. Nel tempo, nella vita e nel processo originale rivisto e commentato» (Otto/Novecento, 714 pag., 20 euro). Ne è autore Giuseppe Farinelli. Rispetto al 1999 il volume è arricchito di note critiche, con numerose "scoperte" rispetto alla versione di Manzoni ne «I Promessi sposi», di cui Virginia-Gertrude è una dei protagonisti assoluti. Ecco un estratto dell’introduzione.

di Giuseppe Farinelli

Che tutti abbiano sentito parlare della monaca di Monza è un dato abbastanza scontato; ma purtroppo una incallita diceria, che è quasi tradizione, l’ha collocata senza scampo, con tutte le mutilazioni immaginabili e possibili della verità, nel novero delle figure insieme più suggestive e nere della non poi così provinciale provincia lombarda. Al di là di compiaciuti indugi puramente erotici, con cui la novellistica ha accompagnato l’esistenza e la femminilità di Virginia Maria, è morbosa, verso alcuni suoi atteggiamenti di ribellione al sacrificio impostole dalla segregazione perpetua. Ma questo, allargando lo sguardo al settore delle strutture, non deve suonare condanna indiscriminata al funzionamento dei monasteri nel Cinquecento e nel Seicento, anche perché in seguito al sinodo tridentino a Milano l’attività dei Borromeo fu con meticolosa cura rivolta alla revisione disciplinare delle istituzioni monastiche presenti in maniera capillare su tutto il territorio della vasta diocesi lombarda: nella sola Monza, allora una cittadina di quasi seimila abitanti, c’era oltre una decina di conventi maschili e femminili. La rilettura del processo originale della monaca di Monza (...) permette (...) di avanzare due osservazioni non più eludibili.

Scandalo "attutito"

L’intero incartamento - è la prima osservazione - che porta la data "mediana" del 1608 (tra atti istruttori, dibattimenti e sentenze, intercorrono due anni) dimostra senza alcuna ombra di dubbio la forse tardiva volontà della curia sia di pervenire all’accertamento della verità, dopo l’accusa mosso all’Osio di violazione della clausura, di deflorazione e di omicidio, e sia di limitare gli effetti devastanti dello scandalo con la cauta e dimostrata severità del procedimento penale. Ma si badi: l’usurata e comoda intitolazione del processo alla monaca di Monza è di per sè impropria: il processo, pur eseguito dalla magistratura ecclesiastica, è intitolato all’Osio. Virginia Maria, a parte il caso del prete Arrigone, è una delle imputate; le altre sono Ottavia, Benedetta, Silvia, Candida Colomba; ed è quella che statisticamente viene interrogata il minor numero di volte. Certo, è e resta la protagonista in primis; la scena però è ben più articolata di quanto non appaia, per esempio, nel Dandolo, che circonda suor Virginia Maria di un tetro alone di solitudine romantica, quasi fosse, con la connivenza di ancelle sottomesse, una truce e sanguinaria castellana di un racconto medioevale. Alla luce di questo incartamento risulta comunque esagerata la posizione di quanti tra storici e critici, ricordando le sentenze, hanno puntato il dito contro l’apparato repressivo e punitivo della curia arcivescovile milanese di Federico Borromeo; a mio parere il peso fiscale dell’autorità ecclesiastica va nella fattispecie commisurato alla reale gravità della situazione che nel convento di santa Margherita e in Monza implicava spietati omicidi: in fondo a nessuna delle monache sacrileghe fu chiusa la porta del riscatto e della conversione.

Doveva «casarse»

Ma l’argomento più interessante da discutere - ed è la seconda osservazione - concerne la monacazione forzata di suor Virginia Maria. Parafrasando la Gertrude manzoniana, da Dandolo allo Zerbi, a Locatelli-Milesi, a Mazzucchelli si apprende che essa fu destinata al chiostro nella stessa intenzione dei genitori, cioè prima della nascita. Non è esatto. La madre, stabilendo nel testamento l’asse ereditario di pertinenza della figlia, lo finalizzava espressamente al suo matrimonio - «etad de casarse» -. Fu il padre don Martino, uomo completamente dedito alla guerra e alle cose guerresche, a decretare per Marianna (Virginia - e lo sappiamo - è il nome della madre assunto da Marianna con la professione religiosa) l’entrata nel monastero di Monza: ragioni familiari, di tempo e di denaro lo convinsero, ma è un termine inadatto perché implica un concetto di tormentoso ripensamento della bontà della scelta. La monacazione forzata è per Virginia Maria un atto succedaneo e non, come dire, nativo, e questo atto più che frutto di un destino può apparire, anche sul piano di una ipotetica ricerca di consenso e di convinzione, frutto di una ragionevole contingenza o meglio di una necessità non disgiunta dalla constatazione di uno stato di orfanezza. I monasteri erano anche luoghi d’asilo. Ma non mancano i documenti in cui monache coatte manifestano il loro rancore per essere state sepolte nel chiostro (...). Questo discorso nel suo complesso non va interpretato come una negazione al fatto consolidato secondo il quale suor Virginia Maria entra di diritto con ogni conseguenza nel novero delle monache forzate; vuole semplicemente mettere sull’avviso che la sua condotta sregolata non ne dipende "in toto" necessariamente: ha cause ben più intricate; e nel processo non c’è una sola parola che denunci, a scarico penale e morale, una estranea e preventiva volontà costrittiva.

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