Miglio, pensiero indipendente
che è ancora "scomodo"

La denuncia: "Un silenzio assordante sul lavoro del politologo comasco". A sette anni dalla morte pare calato l'oblìo sulle sue idee, nonostante l'attualità

Ricorre il 10 agosto il settimo anniversario della morte di Gianfranco Miglio, politologo di Como (1918-2001), studioso del federalismo, per trent’anni preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano, divulgatore in Italia dell’opera di Carl Schmitt. Fu senatore dal ’92 al ’98. Al professor Alessandro Vitale, docente di Studi strategici all’Università Statale di Milano, allievo e per anni suo stretto collaboratore, abbiamo chiesto un contributo sull’attualità del pensiero di Miglio.

Gianfranco Miglio non se n’è mai andato. A leggere i suoi scritti, come quello riproposto su queste pagine, che in realtà è del 1994, sembra proprio così. È come se, mediante i pensieri e le analisi che ci ha tramandato, continuasse ad osservare, a fotografare la realtà politica nella quale viviamo, a illuminarne i segreti meccanismi, denunciandone i difetti, le patologie, smascherandone le finzioni e indicando rimedi che non verranno mai adottati. È il destino dei grandi scienziati della politica, quale lo studioso comasco è stato.
Quest’anno Gianfranco Miglio avrebbe compiuto novant’anni. Altri giuristi e scienziati del suo calibro hanno raggiunto questa veneranda età. Il destino però ha voluto diversamente, sottraendolo sette anni fa ai suoi affetti più cari e a un lavoro inesausto, costante, sorretto da una formidabile determinazione e guidato da un’intelligenza lucida, profonda e indagatrice. Eppure i testi dei suoi studi e interventi, come si può constatare facilmente, sembrano averlo reso immortale. La sua capacità di comprensione di problemi-chiave e di previsione aveva infatti dell’incredibile e non è un caso che dai suoi scritti continui ad affiorare una freschezza incomparabile. Il suo lavoro è più attuale che mai perché era rivolto ai tempi lunghi, a cercare di sapere cosa sarebbe accaduto fra cinquant’anni, non l’indomani. Gianfranco Miglio ha pagato con un lungo ostracismo la difesa del suo percorso scientifico, la sua assoluta indipendenza di giudizio, la sua coerenza e onestà, che hanno fatto da sfondo alla sua sconfinata dignità di uomo libero. Ha pagato la sua libertà di interpretare e spiegare, con straordinaria limpidezza, i dati che emergevano dal suo lavoro scientifico, in un Paese dominato da consorterie e clientele, da corruzione e nepotismo, da partiti che occupano tutte le sedi culturali premiando solo i propri intellettuali di corte. In un Paese cosiffatto, un uomo tanto indipendente è sempre stato scomodo. Gianfranco Miglio lo è stato però proprio come lo sono tutti i veri scienziati della politica, che non si preoccupano di compiacere chi detiene il potere, né di aderire alle convinzioni più diffuse o di abbellirle con orpelli ideologici o con "omaggi labiali" ad altisonanti principi. Così si spiega anche il silenzio calato sulla sua opera, che rimane tuttavia, a dispetto dei detrattori, quella di uno dei più rigorosi studiosi della politica a livello internazionale.
Genio solitario, Miglio verrà riscoperto solo con il tempo, che agisce in questi casi a favore della verità. Nel frattempo, chi viene a contatto con i suoi scritti non riesce a staccarsene, come dimostrano le centinaia di persone che li fotocopiano e se li passano, in un vero e proprio "fiume carsico" rispetto alla cultura ufficiale, perché non si accontentano delle facili e false interpretazioni della realtà che spesso diffondono i mezzi di comunicazione di massa. Il coraggio dimostrato nelle sue scomode e anticonformiste prese di posizione, la sua lotta solitaria per una radicale riforma di un Paese degenerato in una forma strisciante di tirannide, hanno lasciato l’esempio di uno studioso generoso, restio a chiudersi nella sua comoda torre d’avorio e pronto a opporsi, anche solitariamente, senza cercare vantaggi personali, a un sistema politico-costituzionale denso di rischi per la libertà dei cittadini. Il suo esempio continua ad attirare anche chi non l’ha conosciuto, a dispetto di un assordante silenzio ancora dominante sul suo lavoro.

Alessandro Vitale

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Lettera di Gianfranco Miglio a Berlusconi,
Corriere della Sera 21 agosto 1994

Signor Presidente, alla ripresa, fra le questioni più gravi che lei dovrà affrontare, c’è quella della Giustizia. Che gli italiani fossero corrotti lo sospettavamo, la realtà svelata finalmente dai Magistrati di Milano si è palesata di gran lunga più grave di quanto si temesse: non si tratta infatti soltanto dei vertici dei partiti e di alcuni grandi imprenditori (Tangentopoli), perché adesso si scoperchia anche la pentola della Guardia di Finanza, e domani si aprirà il registro immenso delle amministrazioni locali (e del mercimonio all’Urbanistica e dei Lavori pubblici). Da una, forse due, generazioni, viviamo in un Paese in cui, fatta salva una minoranza di ignari galantuomini, il grosso dei cittadini campa nella più diffusa illegalità.
Di fronte a questa situazione catastrofica, si sono materializzati due comportamenti alternativi. C’è, in primo luogo, chi (armato di una buona dose di cinismo) ritiene gli abusi venuti alla luce una componente inevitabile delle società economicamente avanzate: un prezzo da pagare se si vuole un mercato produttore di prosperità. Perciò chiede una sostanziale attenuazione delle regole dello “Stato di diritto”, e del principio della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge: un imprenditore, che crea ricchezza e benessere, non può essere trattato come l’ultimo dei bricconi.
Prima delle ferie, nell’aula del Senato, alcuni dei suoi seguaci, signor Presidente, mi hanno ammonito (suscitando la mia ilarità): se non fermiamo i giudici, questo autunno, nelle vallate da cui vengono i tuoi elettori dilagherà la miseria. Legato a questo modo di pensare è l’atteggiamento dei cosiddetti “garantisti”: secondo i quali, mentre le istituzioni dello “Stato di diritto” sono fatte per indurre i cittadini a rivelare le verità di cui sono responsabili, le persone più “dotate” (cioè più astute) dovrebbero avere la possibilità, al contrario, di celarle, quelle verità.
Si sostiene: è meglio un colpevole in libertà (per merito dei suoi avvocati) piuttosto che un innocente in galera (per l’efficienza dei magistrati). Capolavoro dei “garantisti” è stata la campagna contro la “carcerazione preventiva”. Qui in Italia eravamo arrivati al punto che le pene detentive non erano considerate un esito probabile per che malversava il pubblico danaro, e quindi derubava i suoi concittadini. Far sperimentare, invece, qualche mese, o qualche giorno, di carcere agli inquisiti più sicuramente indiziati, ha significato scioglier loro la lingua (…)
Nel campo opposto (definito dei “rigoristi”, ma che si è visto corrispondere alla grande maggioranza dell’opinione pubblica) si ragione invece come segue. Ci sono voluti secoli di lotte per ottenere l’eguaglianza di tutti davanti alla legge: se un potente, o un grande operatore economico, hanno compiuto un atto illegale contro la pubblica amministrazione, paghino il loro debito verso la giustizia, come l’ultimo dei popolani, e siano esclusi per sempre dallo intessere affari con la mano pubblica (…). E’ giusto “depenalizzare” i reati minori, sostituendo la reclusione con ammende pecuniarie (però: robuste e fulminee).
Ma non si può immaginare di ridurre il tasso di illegalità presente nel Paese, sfollando le carceri: così che si arrivi rapidamente alla condanna (e alla assoluzione) dell’inquisito. Ma per far questo bisogna imbavagliare i “garantisti”. Signor Presidente, chieda al suo ministro della Giustizia, anzi chè di legare le mani alle Procure, di proporre un sostanziale sfoltimento della procedura penale: il giudizio d’appello e l’eventuale accesso alla Cassazione siano rimedi eccezionali, da concedersi da parte di un’autorevole commissione di magistrati. E poi proponga che le pene per i reati commessi contro il patrimonio e le risorse finanziarie della collettività siano vigorosamente aggravate: e si stabilisca che per tali eati non si fa luogo a patteggiamento, e non hanno effetto le amnistie e gli indulti. E infine, sul piano delle riforme costituzionali, si elimini la componente politica del Csm: se o magistrati hanno dormito per decenni e hanno finto di non vedere le malefatte dei pubblici amministratori, ciò è accaduto anche perché le loro carriere erano decise da un collegio in cui sedevano i rappresentanti dei partiti.
Lei, e suoi ministri, signor Presidente, affermate di non voler “colpi di spugna”; ma se si intimidiscono i giudici, e li si delegittima, sollevando contro di loro un’onda di sospetti, si fa qualcosa di peggio: si costringono gli italiani a rimanere in corruzione permanente. Dopo essere stati per anni (e ad essere tuttora) uno Stato a “sovranità limitata”, rischiamo di diventare una convivenza a “legalità limitata”; un Paese ideale per i filibustieri di ogni provenienza.

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