Occupare, ma con ironia
Latronico lo spiega a Como

Mai così attuale il romanzo, premiatissimo, di Vincenzo Latronico, che affronta in modo tragicomico il mondo dei ventenni e sarà a Como il 28 ottobre, alla Libreria Meroni

Per gentile concessione dell’editore Bompiani e dell’autore, pubblichiamo un estratto del libro «Ginnastica e rivoluzione» di Vincenzo Latronico, che il 28 ottobre si presenta a Como, alle ore 21, alla Libreria Meroni. Ingresso libero.


di Vincenzo Latronico

Certo che la conosciamo, l’occupazione. Ci siamo stati. L’abbiamo fatta. Anche se viene da chiedersi se la parola sia quella giusta, se il suo significato sia lo stesso che faceva gridare i giornali e i politici, anni fa, nei tempi di fate ed Eldorado della grande contestazione. C’è da chiederselo, perché si ha come la sensazione che sia mutato qualcosa, che ci sia stata una trasformazione; o almeno questa è l’impressione che avevamo avuto io e Charles l’ultima volta. Era una mattina di un marzo, e l’agenzia cominciava, a modo suo, a ingranare. Un giornale di provincia ci aveva chiesto un servizio sull’occupazione di un distaccamento del polo umanistico della Sorbonne. E così il vento delle otto e quaranta bruciava le strade e ci lacerava i capelli mentre io e Charles aspettavamo che il servizio d’ordine ci facesse entrare. «Non se ne parla, ragazzi, mi spiace. La stampa no». «Ma noi siamo con voi. Sul serio». «Sai? Non ne ho mai sentito uno che dicesse il contrario. Non prima di arrivare in redazione, perlomeno». Dopo, ci ha spiegato il compagno picchettatore, si sbizzarrivano tutti, nella misura in cui ciò era incoraggiato (pare) dagli oscuri poteri e dagli infidi burattinai che dagli uffici dell’ultimo piano guidavano la controriforma e la soppressione. Quello che era successo è che il giorno prima qualche giornalista si era trovato più o meno coinvolto nella manifestazione di studenti universitari che a metà mattinata aveva deciso per acclamazione popolare di occupare una sede distaccata della facoltà di filosofia e farne una piattaforma per coinvolgere nel movimento anche le masse silenziose e causalmente inerti; aveva seguito l’assemblea di gestione che quella sera aveva visto i trecento occupanti discutere ferocemente su cose grandissime e inafferrabili, prive di appigli, vuote - insomma, ci si era scannati su temi elevatissimi senza riuscire a produrre neppure un volantino o uno straccio di rivendicazione per condire quella che altrimenti non era che interruzione di pubblico servizio. E così, poiché lui e i suoi pari dovevano in qualche modo rendere conto alla cittadinanza e soprattutto alla redazione di quello che avevano fatto per tutto il giorno gli studenti e loro stessi, non avendo niente di meglio da scrivere si sono affrettati a tirare fuori il peggio del sottobosco culturale di opinionisti e ziette incanutite che parlavano di sessantotto, di buonismo e di voglia di farsi vedere e di trovare una voce nella società di massa, mentre gli occupanti, chiusi ai canali d’informazione e senza i numeri per fare azioni di visibilità nella città, sprofondavano nella routine e nell’oblio dei più, dietro i loro picchetti e servizi d’ordine, nelle loro segrete stanze ed assemblee, ribadendo l’intransigenza e la forza della loro protesta e sfioccandosi, erodendosi a poco a poco nei numeri, nell’entusiasmo, finché tutta la baracca è restata nelle mani dei pochi che ancora resistevano e non se ne andavano e ancora rivendicavano diritti importantissimi di cui da allora in poi non sarebbe più fregato più niente a nessuno. Certo che la conosciamo, l’occupazione, schiacciata fra la paranoia di essere denigrati dai giornali e la consapevolezza (banale e già metabolizzata) che «non si esiste se non si è mediatizzati», che ormai vale più «una foto di dieci sfigati in seconda pagina che un corteo di centomila in piazza»; l’occupazione incapace di dialogare con una società civile che non la capisce e una classe politica divisa fra la strumentalizzazione e il colpevole silenzio-assenso; martoriata da un sistema informativo che la accusa di ciò di cui sempre la accusano, della leggerezza e dell’immaturità che la loro stessa narrazione li costringe a rivestire; l’occupazione narrata e ogni volta ricreata su un canovaccio sempre più sottile, sempre più distante dai suoi autori originari, vintage, quegli stessi autori che contrabbandano se stessi come modelli per poi accusare di non essere in grado di sviluppare strumenti nuovi e di usare quelli ereditati dai fratelli grandi e dai genitori in modo peggiore e più approssimativo; l’occupazione proprio per questo egotica e retroflessa, ossessionata dalla propria immagine, l’occupazione che costituisce nuclei per i rapporti con la stampa prima persino di un servizio d’ordine, che manda rivendicazioni alle redazioni e non ai parlamenti perché tanto non vedrebbe ragione per farlo, perché l’interlocutore ormai è tutt’altro, l’interlocutore non c’è; l’occupazione che riflette sino all’ossessione su se stessa e i propri scopi e le proprie forme, discutendo incessantemente di tutto fuorché… Oh, sì. La conosciamo, l’occupazione.


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L'autore: "Per una scuola forte
servono altre strade innovative"

di Vincenzo Latronico

La mobilitazione di docenti e studenti di ogni settore scolastico cui stiamo assistendo in questi giorni ha qualcosa di molto antico, e qualcosa di molto nuovo. Di antico, perché è antico l’impulso a reagire quando le decisioni che ci vengono imposte ci sembrano cieche e dannose, autoritarie, sorde. Di nuovo, perché, per ora, si sta concretizzando in forme che hanno poche affinità con il "bagaglio" tradizionale della protesta studentesca, le occupazioni, le autogestioni, i sit-in: che erano forme potenti, forme con una storia eccellentissima, forme che ogni volta rischiavano di far incasellare i contestatori nella comoda classificazione di estremisti, allontanando dall’attività quelli che, magari, potevano scoprire proprio in essa un nuovo coinvolgimento civile e politico e sociale. Con questo in mente potrebbe avere senso riprendere, oggi, alcune pagine pubblicate quasi un anno fa nel mio romanzo «Ginnastica e Rivoluzione», edito da Bompiani: in cui si parla, appunto, di occupazioni, e di quanto possano essere spontanee e potenti e dannosissime, al contempo. Se vogliamo augurarci, e lo vogliamo, una scuola e un’università forte e rinnovata, salva dallo scempio che se ne vuole fare, occorrerà trovare, credo, strade nuove per rinnovarla. «Ma allora», potremmo chiederci con Antonio Moresco, che così scrive nella prefazione della nuova edizione del suo «Lettere a Nessuno» (Einaudi), «Ma allora c’è il lieto fine, stavolta?, potrebbe domandare qualcuno. No, non c’è il lieto fine».

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