Quel "baloss" di Ulisse

Il drammaturgo Luoni racconta, in anteprima a "La Provincia", la nuova sfida teatrale in dialetto Lezzenese

di Basilio Luoni

Quando insegnavo nelle scuole medie uno dei piaceri - e forse il più grande - era leggere agli allievi l’"Odissea", la storia che contiene tutte le storie, il poema fondatore di tutta la tradizione narrativa occidentale, il primo dove l’eroe rinuncia al proprio statuto di eroe e sceglie di essere nient’altro che uomo, col carico di dolori e passioni, di rischi e di erranze, di sconforti e di astuzie, di nostalgie e consolazioni che sono il bagaglio consueto della vita di ciascuno di noi. Erano ore incantate.
Tra i banchi regnava lo stesso silenzio che aveva invaso la reggia di Alcinoo mentre Odisseo, lo straniero, narrava di Polifemo e di Circe, di Eolo e delle Sirene, del regno dei Morti e dell’isola del Sole. Il tempo sembrava sospeso. Il tedio, così spesso compagno degli scolari, svanito come il sonno dagli occhi dei Feaci. Non so quali immagini si formassero nella mente dei giovani ascoltatori. So che nella mia tornavano a sfilare quelle che accompagnavano il testo di Omero nella edizione della mia infanzia: le illustrazioni neoclassiche di Flaxman, tracciate senza pentimenti da un bulino sottile e sicuro, quasi parole divenute esili, elegantissime figure tra le mani di uno scriba eccelso: Femio che davanti ai pretendenti di Penelope canta il ritorno dei Greci, i venti scatenati da Poseidone che fracassano la zattera di Odisseo e Leucotea che gli offre il suo velo per scamparlo dal naufragio, Ermes che guida agli Inferi le anime degli uccisi… La fantasia del Canova, negli stessi anni di Flaxman, ne aveva fatte lievitare altre, analoghe, in pasta di gesso tanto lieve da sembrare commestibile: la processione delle troiane al tempio di Atena, o la sublime danza dei figli di Alcinoo.
Al termine della lettura qualcuno proponeva inevitabilmente: «Proviamo a "farla" anche noi». Si distribuivano in fretta le parti, la cattedra diventava l’Olimpo o l’antro del ciclope, il pavimento si ondulava come il mare, due banchi appaiati formavano la nave del re di Itaca, una sciarpa era il salvagente di Leucotea, giubbe e cappotti il corredo che Nausicaa porta al fiume con le ancelle, e i personaggi del poema tornavano a parlare, non certo improvvisando discorsi sontuosi e pieni di musica come quelli di Omero, ma frasi smozzicate e sbrigative come quelle dei fumetti e dei cartoni animati, magari suggellate da un ok o da un wow. I più eloquenti, in genere erano gli animali: i maiali di Circe, i buoi del Sole, le aquile profetiche, il cane Argo, le oche di Penelope. A distanza di decenni, comunque, gli attori di allora si ricordano di Telemaco e Laerte, di Eumeo e di Euriclea, di Antinoo, Melanzio e Melantò. È da questo terreno che è nato il desiderio, e la volontà di scrivere un’Odissea per la Compagnia Teatrale Lezzenese, così come "El Natal" era germogliato dalla passione infantile per il Presepio, "mistero" muto in attesa di parole e di voci.
Bisognava dare struttura drammatica alla materia poetica e perciò si sono sacrificati i libri iniziali del poema dedicati al viaggio di Telemaco, e il racconto delle avventure e degli incontri di Odisseo. È rimasta la parte conclusiva del suo ritorno il nostos vero e proprio. Ho cercato di lavorare come i poeti antichi, epigoni di una lunga tradizione mitologica, i quali, non potendo "inventare" granché di nuovo, visto che la materia mitica era data una volta per tutte, sceglievano la strada delle "variazioni": la scena iniziale, che nel poema era vista dal mare, viene vista da terra; qualche antefatto viene raccontato da un personaggio; l’ambiente va ricostruito attraverso gli accenni contenuti nelle battute di dialogo. Una scena è completamente di mia invenzione. Una tarda tradizione vuole Odisseo ucciso da Telegono, il figlio avuto da Circe, del quale l’eroe ignorava l’esistenza: ho introdotto questa fine, che mi è sempre sembrata affascinante, a "cannocchiale", facendola prevedere oscuramente dalla maga durante un incontro con Ermes. Rinunciare a costui e ad Atena, gli dei protettori dell’eroe, mi sarebbe parso un errore grave. Ignari di vecchiaia e di morte, in scena i due saranno dei ragazzini misteriosi e protervi, in atto di giocare coi destini umani.
 Invece si rinuncia senza alcun rimpianto a qualsiasi scenografia naturalistica: il palcoscenico non diventa reggia o scogliera o capanna di pastore, rimane palcoscenico di assi occupato stabilmente dalla minima attrezzeria indispensabile: qualche panca, mucchi di foglie, una conca di rame, qualche secchio, un mastello, cesti di vimini, ciotole di legno, vecchie coperte. Né si prevedono costumi "greci" archeologici, ma neppure folcloristici. La magia del teatro, se avviene, deve operare essenzialmente attraverso le parole, secondo la lezione dei drammaturghi elisabettiani. E le parole sono quelle del dialetto lezzenese. Che lingua potrebbe parlare in scena, credibilmente, un personaggio del mito? L’italiano dei postriboli televisivi? Sfoggiare la retorica in similoro dei politici? Modulare i birignao dei grandi attori generati dalle costole di Carosello? Tutte le volte che mi metto a scrivere per il teatro that is the question: trovare una lingua espressiva, non compromessa, non sputtanata, e insieme consueta, domestica, feriale. La risposta quasi sempre è il dialetto, anzi, un dialetto preciso, il lezzenese, che forse ormai esiste soltanto nella mia mente. Perché lo capirebbero benissimo i miei compaesani di cinquant’anni fa, quelli di oggi non so. Come non so di chi sia la colpa: se qualcosa cade in disuso si ha ormai l’abitudine di accusare la cosa stessa, etichettata obsoleta. E se invece fosse di chi, troppo imbranato, non sa più usarla? Il titolo non sarà "Odissea", per decenza, evidentemente, e senso delle proporzioni, ma "El Baloss". Odisseo è l’accorto, l’astuto. Astuto, in dialetto, è baloss. Nel vocabolario milanese del Cherubini, però, la voce "baloss" si arricchisce di significato: «Baloss. Così chiamansi per antonomasia nel Basso Milanese que’ vagabondi che si presentano sul far della notte alle cascine chiedendo alloggio e vitto, certi d’ottenerlo pel timore che incutono facilmente a’ cascinaj abitanti in luoghi pericolosi perché isolati». Chi più "baloss" di Odisseo?

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