Quelle memorie "vitali"
per la cultura comasca

Basilio Luoni, amico di Ferrero e curatore dell'opera, interviene nel dibattito sulla necessità di un archivio dei grandi autori lariani, lanciato dal critico Fulvio Panzeri sulle pagine de "La Provincia"


di Basilio Luoni *

Nel penultimo capitolo dei "Promessi Sposi" Don Ferrante si interroga sulla peste e la attribuisce infine a «quella fatale congiunzione di Saturno e di Giove» all’effetto virtuale dei corpi celesti contro il quale non vale affannarsi a seguire i consigli dei medici. Pertanto «non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle». E la sua famosa libreria, conclude il Manzoni, «è forse ancora dispersa su per i muriccioli».
 E sicuramente la fine più temuta dai letterati, la più agghiacciante ed atroce, questa della dispersione dei propri testi e documenti. Tanto più disperante quanto più si è consapevoli di aver lavorato seriamente, con passione e competenza, di aver detto qualcosa di non trascurabile nel mondo della letteratura e dell’arte, e di non essere degli otri pieni di vento come era invece in definitiva il povero don Ferrante.
Lo scrittore Sergio Ferrero, che mi onorava della sua amicizia e della sua fiducia, negli ultimi mesi di vita aveva una sola grande preoccupazione: fare ordine nei suoi libri, quaderni, taccuini, album, lettere, fotografie, ritagli, quadri, stampe, mobili, oggetti. Per gli oggetti, i mobili, i quadri, i disegni, i volumi francesi e inglesi e russi e italiani e tedeschi della sua biblioteca, trovava il giusto destinatario, l’amico da consolare con un ultimo segno d’affetto.
I manoscritti invece, le fotografie, i quaderni su cui da decenni incollava le immagini e ritagli, che colpivano e nutrivano la sua fantasia "combinatrice" di romanziere alla Dickens o alla Simenon, i taccuini dove segnava gli incontri, gli avvenimenti e le riflessioni importanti, le traduzioni dai poeti che amava, i "telai" delle storie che andava tramando e che si riprometteva di scrivere destino permettendo, li ha affidati a Serena Vitale e a me, che li stiamo inventariando.
 Negli ultimi anni aveva rivisto con estremo puntiglio il suo primo libro ormai introvabile, "Gloria", del 1966, coprendo i margini delle pagine a stampa di correzioni, modificando frasi, sostituendo parole. Ormai costretto a letto, ancora negli ultimi giorni mi chiedeva di aprire "A moscacieca" e di controllare il tal passo, di eliminare quello che gli sembrava una ripetizione, di "ripulire" lo stile. Si chiedeva se fosse il caso di tagliare le ultime pagine, la conclusione di cui non era perfettamente convinto.
Come per Marcel Proust i suoi libri, le sue pagine, stampate o manoscritte che fossero, erano per lui chiaramente gli strumenti cui affidava la sua risurrezione. Da non disperdere, da non perdere. Da non dimenticare, così come lui non le dimenticava e continuava ad accanirvisi nella convinzione che, magari ulteriormente perfettibili, fossero comunque i "valori" non effimeri della sua vita, oltre che la prova di quanto dovrebbe contare nella vita di chiunque: la dedizione seria e amorosa al proprio lavoro. Quale testimone oculare di una tale inesausta passione per la pagina scritta, mi trovo completamente d’accordo e disponibile con la proposta, lanciata da Fulvio Panzeri sulle pagine di questo giornale, di un «archivio lariano» che raccolga i segni lasciati dagli scrittori e artisti importanti per il nostro territorio. Un archivio "aperto" beninteso, che diventi motore di ricerche, di studi, di riscoperte, di incontri, di scambi di idee. Altrove, in Francia e in Inghilterra, in Germania e in Austria per esempio, anche i luoghi più sperduti legati all’esistenza di uno scrittore o di un artista, trovano il modo, e i soldi , per salvare un edificio, allestire un piccolo museo, una biblioteca specializzata, curare pubblicare e diffondere quaderni di ricerca e di critica, ristampe di opere esaurite o introvabili, edizioni di epistolari e di inediti, tracciare e suggerire percorsi e itinerari culturali, etc. <+G_TITOLINI>Meno sagre, più cura <+G_TONDO>Noi, al contrario, siamo un paese tristemente noto - oggi - per l’incuria che dimostriamo nei confronti del nostro patrimonio storico, linguistico, letterario, artistico, ambientale: in una parola civile. Forse siamo stati colpiti da un terribile morbo, simile all’Alzheimer, contro il quale però, se non siamo otri disperati e pieni di vento come Don Ferrante, qualcosa è possibile fare: coltivare e tener in ordine i ricordi, allenare la memoria al rispetto di quanti ci hanno lasciato qualcosa di importante, valori reali e non effimeri. Invece di rassegnarci una volta e per sempre alle sagre danzanti e ai fuochi d’artificio, impegnarci ad allestire archivi aperti e a frequentare metaforicamente cimiteri e sepolcri come faceva e suggeriva il Foscolo, a decifrare e a interpretare "iscrizioni". Eviteremmo di finire, senza possibilità di risurrezione, in una immensa fossa comune neppure meritevole di una lapide. E d’altra parte, la lapide, chi sarebbe più in grado di scriverla? Giriamo la domanda agli amministratori competenti (?).

(* Drammaturgo e poeta)

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