Rossori soavi e umide labbra
Parini, tracce di vita amorosa

I due sonetti inediti riecheggiano temi ed aspressioni della produzione del poeta e ne autorizzano l'attribuzione

Val la pena ritornare sull’argomento dell’"abbate Parini": per circostanziare, per argomentare e comprovare certe affermazioni relativamente all’autenticità della paternità dei due sonetti, se non con prove documentarie (non ce ne sono allo stato dei fatti) almeno con elementi testuali (emergenze concettuali, sintagmi, clausole ritmiche) che li riconducano entro l’alveo della poesia del Nostro. E per vederli funzionare sullo scenario più vasto del costume dell’epoca, come testimonianza di un’attitudine, sia personale (dello scrittore) che collettiva, niente affatto riprovevole o giudicabile con moralistico cipiglio (da chi poi? da noi?!).
Un’epoca che non si fa scrupolo di rappresentarci donnette graziose e disinvolte, addobbate anche nel nome da pastorelle d’Arcadia, con appassionati cicisbei a servirle e riverirle in fogge e guise le più diverse: Fillidi e Delie e Amarillidi e Clori e Nici e Silvie e più avanti Amiche Risanate o Cadute da Cavallo, che non si fanno scrupolo di suscitare "cupidi" sguardi o voglie più o meno confessabili al poeta pronto almeno nell’auspicio a godere, quando che sia, delle loro grazie generose nei segreti penetrali della loro intimità, "sacerdotesse" di un mistico rito pagano, se non di sesso, almeno di scrittura e di invenzione poetica. 
Questo per dire che molte volte il linguaggio può ben essere trasfigurazione poetica, destinato a risolversi anche soltanto in sublimazione dell’eros, facendo prevalere la meno rischiosa elaborazione formale sull’ardore del sentimento.

Più spesso, in tali faccende, valgono a monito le parole del più pudico Catullo del carme 16, secondo cui «non si può pretendere dai versi del poeta» la stessa castità (e coerenza) che si pretende dalla sua vita. E dunque ammettiamo in poesia l’uso di un linguaggio ai limiti perfino del licenzioso (senza comunque sconfinare nell’oscenità, in cui incorre il gaudente e dal Parini deplorato abate Casti), ma con l’avvertenza che possa essere niente più di una convenzione letteraria, come lascia intendere il fatto che trattandosi, almeno nel nostro caso, di sonetti d’occasione, composti per chissà chi, il poeta avrà attinto con giudiziosa parsimonia a un repertorio di immagini e stilemi di consolidata notorietà. Non tutti, del resto, sono come il "rosso di pel" di Zacinto, ossia Ugo Foscolo, a poter vantare, assieme a un solido bagaglio retorico da modulare con consumata disinvoltura, anche dirette competenze in materia! Il nostro buon abate, che pure auspica per il suo secolo il ritorno di «Innocenza e Libertà» (nell’ode <Il Piacere e la Virtù>), si concede appena qualche umana debolezza (ipotizzabile da una serie di 6 lettere, indirizzate a un amico, il dottor Giuseppe Paganini, principalmente da Cantù, forse nel 1773), limitandosi al massimo a qualche audace allusione e ammiccamento, a spasimare con «scaldata fantasia» di geloso tremore «ch’altri faccia al bel corpo catena / de le sue braccia» (sonetto 42), i suoi languori indirizzandoli con «alma...paga» e «vivo... desio» a sbirciare solo in sogno «i bei membri» del corpo dell’amata («Quali forme apparian sotto la veste!» sonetto 41), e sempre tenendone soltanto, «al dì chiaro e ne la notte bruna», negli occhi e nel cuore l’amorosa effigie (sonetto a Silvia).
Prendiamo il primo dei due testi, quello in cui si evoca il momento cruciale della solitudine dei due sposi nella camera nuziale. Quello, per intenderci, tutto tramato e risonante di echi di Saffo e del Catullo epitalamico dei carmi 61 e 62, laddove si parla dei «dolci amplessi» e del «soavissimo rossore» della sposa, nonché delle «feconde stille» del piacere, auspicio e promessa del «desiato erede» per l’appagata «Insubre speme» del marito.
Ebbene, i «dolci amplessi» del v.5 sono un chiaro ricalco dei «casti amplessi» del sonetto 48 e si dispongono a naturale completamento del «rito gentil» che «le salme accoppia», così come rappresentato oltre le silenziose e discrete soglie del «talamo beato» nel <Mattino> (vv.386 sgg), con quel «la tinge soavissimo rossore», che di quello riprende un’analoga notazione, volgendola in chiave floreale, «in viso tinta di freschissime rose», memore altresì di un verso di Ripano Eupilino («il volto d’un rossor dolce copria», VI, 6), mentre il «bel pudor tradito» lo si ritrova nel «bel pudore» da serbare del sonetto 49 e nel «vinto pudor» del sonetto 51.
Ancora, dietro le «anime paghe» che plaudono soddisfatte al rito appena consumato si profilano i «lieti lari» della canzonetta <Le nozze> (1777), mentre il «desiato erede» la cui promessa suggella l’atto è ripreso nell’«Insubre speme» del sonetto successivo, indizio della caratterizzazione lombarda dello sposo (cfr. le «insubriche madri» de <L’nnesto del vaiolo>, riecheggiante nelle note e foscoliane «insubri nepoti» dell’Arese dell’ode <All’amica risanata>).
Non diversamente, le «feconde stille» di cui «s’ingemma» il «fior» della donna (pudicamente, designato come «giglio» nel sonetto successivo, mentre altrove, sonetto 48, è qualificato con più esplicita connotazione erotica, come «giovin rosa» da cogliersi dallo sposo con «parca mano») fanno venire in mente il «bell’umido labbro» dell’amata (metafora neppure tanto ambigua del sesso femminile, sonetto 40), dove il poeta bramerebbe indugiare assieme al «bell’uccellino», chissà come e perché fin là inoltratosi a imitazione del più noto ma meno ardito «passero» catulliano.
Minimi prelievi, certo, ma credo per ora sufficienti ad autorizzare l’attribuzione.

Vincenzo Guarracino

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