Sopravvivere alla guerra. Ridendo

Nel libro dei comasco Alberto Zappa, 87 anni, le memorie dei campi di prigionia

C’è un po’ di <M.a.s.h.> e un po’ de <La vita è bella> in <Remembering> (Stefanoni, 371 pp, 15 euro), il libro di memorie dei campi di prigionia durante la Seconda guerra mondiale scritto dal comasco Alberto Zappa. Ci sono la goliardia antimilitarista dei medici dell’ospedale da campo, in Corea, raccontato dal film di Altman, e la poesia, il sogno come unica via di fuga dall’orrore della guerra di quello di Roberto Benigni. Ma Alberto Zappa, c’è da scommetterci, avrebbe a noia qualunque citazione o apparentamento. Perché il suo libro è quanto di meno coltivato si possa immaginare: è materia grezza, dal punto di vista narrativo come da quello stilistico, e anche per questo conserva una straordinaria forza espressiva. Una specie di flusso di coscienza, consegnato alla pagina con l’immediatezza - e tutti i pregi e i difetti - del parlato.

Zappa ha la bellezza di 87 anni, e questo basterebbe a rendere il suo libro un esordio d’eccezione. Nato a Inverigo, imprenditore del design, da qualche anno vive in una casa di riposo a Bellagio. Il tempo per ricordare, e probabilmente non se ne compiace, non gli manca.
Era il 1939, primi bagliori di guerra, il giovane Alberto - antimilitarista - sceglie la propria personale via all’obiezione di coscienza andando volontario come marconista. Non si sa come e quando finisce in mano al nemico. <Remembering> comincia - dopo un preambolo di una trentina di pagine - in un campo di prigionia americano in Nordafrica. Zappa ha la fortuna di essere inserito nel nucleo dei p.o.w. (prisoners of war) addetti ai servizi per i militari. La munificenza degli americani e il senso di fratellanza che si stabilisce tra prigionieri e soldati è una sorta di ritorno alla vita dopo la mutilazione morale della guerra: una scoperta che «ti nutriva la dignità, ti faceva sentire nuovamente il senso della vita, cioè quello di condividere l’esistenza con tutto il resto dell’umanità».

Dopo una parentesi in Sicilia i p.o.w. passano sotto la giurisdizione britannica, e vengono trasferiti in Sudafrica, ed è qui che comincia a manifestarsi un’irriverenza che è un inno alla vita. «Ore otto, appello: i tommies (soldati inglesi ndr) ci inquadravano, qualcuno di loro faceva il burbero ricevendo pernacchie tremende di cui non capivano il significato, poi sono stati edotti e loro stessi quando sapevano di esagerare con certe espressioni chiedevano, come fosse stato un ordine militare: "Pennakkia"...». Poi è la volta della Scozia (e degli scozzesi: «Qualcuno dei più sfegatati ci rimproverava non tanto di aver "dichiarato guerra ad Albione" ma il fatto del goal segnato con la mano in una partita del national British Team nel 1938 con la nazionale italiana»), di Londra - dove aiutano i civili a scavare nelle macerie della città bombardata - e infine del Galles, dove la verve dei più scatenati si coagula e nasce la mitica baracca numero Otto.
L’ironia è la leva con cui i ragazzi della Otto ribaltano il mondo, è la loro personale arma di difesa. Vietato piangersi addosso, vietato recriminare, anzi il "blue" - la tristezza - è il crimine peggiore nel microcosmo della Otto, perché innesca una pericolosa spirale di autocommiserazione. Alla guerra, alla fame, alla lontananza da casa, al lavoro forzato, si reagisce con l’invenzione, lo sberleffo. Le risate, risate da tenersi la pancia, risate da non poterne più, coronano quasi ogni giornata al campo di prigionia, e suggellano ogni impresa. La Otto inventa un mondo parallelo, regole proprie e disciplina inflessibile; diventa, con la sua capacità di tenere alto l’umore dei compagni, l’esempio e il faro per tutti i 5 mila del campo, la certezza che se genio creatività buonumore e solidarietà sopravvivono in quella misura anche lì dentro, beh allora la speranza acquista contorni di gran lunga più prossimi e definiti. «Se ti fermi, se smetti di creare cose inutili, se smetti di prenderti in giro, di escogitare sistemi di sopravvivenza anche morali, la realtà ti schiaccia», scrive Zappa. Ecco allora che s’inventano le cacce al coniglio, le feste con le ausiliarie inglesi, gli spettacoli "en travesti", l’allegra gestione dello spaccio. Ecco l’esame di teologia al cappellano, ecco l’orchestra silenziosa in barba ai sorveglianti: «Ognuno degli aspiranti doveva presentare un suo oggetto che producesse un suono qualunque ma: flebile, intonato, duttile e soprattutto facile (...) pettini, veline, foglie, ed un folto gruppo che faceva accompagnamento con un soffuso suono modulato con le labbra strette, prove estenuanti, controlli durante le prove, all’esterno non si doveva quasi sentire (...) per l’accettabilità dei pezzi proposti, da cui erano escluse tutte le melodie partenopee, questo da regolamento, c’era un’apposita commissione che accettava o scartava le varie proposte (...) notti e notti, dove lo sfinimento per il ridere ti annientava le forze molto più del lavoro della giornata».
Personaggi incredibili animano la Otto, i dottissimi Trimeningei, che hanno sempre le trovate migliori, e Salvatorelli, una specie di guru venerato soprattutto per la capacità di pronunciare gli spropositi più enormi senza scoppiare a ridere.

Il libro non gioca la carta del patetismo: l’orrore della guerra è sottinteso, la durezza delle prigionia sfumata. Non è farsi compiangere l’obiettivo di queste memorie: Zappa è rimasto un ragazzo della Otto, sa che una franca risata aiuta a uscire dalle secche dell’angoscia più di una spalla su cui piangere, e sa quanto la capacità di attivarsi materialmente e spiritualmente valga a conservare dignità e identità. È questa la lezione che consegna. Fino in fondo: alla fine, quando i ragazzi della Otto vengono rimpatriati, la nota dominante è quella, paradossale, della nostalgia. «È stato bello», si dicono sulla porta della casa della madre di Alberto, dove i compagni non hanno saputo resistere alla tentazione dell’ultima pernacchia alla retorica del ritorno: «Signora, uno di noi tre è suo figlio Alberto ma non le diciamo chi, deve indovinare», dicono all’attonita donna, che da cinque anni non aveva notizie del figlio.

Barbara Faverio

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