Verso Pechino/1: I Giochi sono fatti
e l'aria che tira è buona

In un reportage dello scrittore Mario Biondi
il nuovo volto della capitale cinese

La visita a Pechino "subito pre Olimpiadi" si apre con una certa delusione. Sono mesi che leggo e sento parlare del fantasmagorico nuovo aeroporto, largo come la punta di Manhattan, il più grande edificio del mondo, secondo alcuni il più bello.
Ma dov’è? Arrivo nel cuore della notte e sono piuttosto assonnato, ma non posso avere dubbi: l’aeroporto dove sono atterrato venendo da Budapest è quello vecchio, ci sono già sbarcato almeno una decina di volte tra voli internazionali e interni. Bellissimo anch’esso, ma inequivocabilmente quello vecchio (è del 1999!).

Dov’è l’edificio progettato dal celebre studio britannico Foster and Partners e costruito con un finanziamento internazionale di 500 milioni di euro? Non ho tempo di pensarci: a parte la stanchezza, il mio problema immediato è trovare uno sportello bancario notturno onde procurarmi il contante cinese per il taxi fino al mio solito albergo, un po’ fatiscente ma a quattro passi dalla Città proibita.
Oltre a essere quello vecchio, l’aeroporto sembra molto meno efficiente e attrezzato di una volta. Che cosa succede?
Di nuovo non ho tempo di pensarci: trovo i soldi e mi infilo sul primo taxi, stando ben attento a far capire al tassista che non ammetto tariffe forfettarie: non ho la minima intenzione di accettare i suoi borbottati "150 yuan" (15 euro): l’anno scorso la corsa costava sui 63, quest’anno, calcolato un 20 per cento in più per il petrolio galoppante, non dovremmo andare molto oltre i 75. Quindi scatti il tassametro e niente storie: se l’autista tenta di fare il furbo e lo denuncio, la sua licenza sparisce in un lampo. (E all’arrivo il mio conteggio si rivelerà esatto.)

Ma non appena partiamo mi aspetta una sorpresa: il sole, dato l’orario, non si vede ancora, ma nell’aria c’è qualcosa di assolutamente nuovo e per niente antico. È aria respirabile, persino chiara, non la solita cappa grigio-ferro e gonfia di umidità che opprime Pechino. I cinesi sono riusciti davvero a cambiarla per le Olimpiadi, come avevano promesso?
Sono allibito. Comunque, arrivato in albergo, non ci rimugino sopra e vado a dormire. Per la geografia è mattino presto, ma le sei ore di differenza tra Cina e Italia fanno sì che per il mio fisico sia passata da poco la mezzanotte. Dopo un buon sonno esco dal letto bello tonico e vado subito ad affrontare questa Pechino con l’aria pulita. Il premuroso ragazzo in livrea fa scattare la porta a vetri e, appena fuori, rimango a bocca aperta. Sul viale sta passando quello che è senza ombra di dubbio un filobus.
Qui? Non ne avevo mai visti. Mi sporgo oltre gli alberi che ornano il marciapiede e alzo il naso al cielo.
Beh, nel giro di un anno questi matti di pechinesi hanno trasformato il traffico urbano del centro (quanti chilometri quadrati saranno?) elettrificandolo. I fili sospesi corrono dappertutto.
Non si può dire che dal punto di vista scenografico sia un vantaggio, ma per i polmoni è un toccasana. Il tutto in un anno… D’altra parte, se ce ne hanno messi poco più di tre per costruire il famoso aeroporto più grande del mondo… Ma lo avranno costruito sul serio? Io non l’ho visto.
Mi metto a gironzolare un po’ per questa singolarissima città, che non capisco per quale motivo sembra suscitare ire funeste e critiche furibonde (da parte di gente che spesso non l’ha mai vista), mentre a me piace molto.

Il mattino dopo voglio andare a vedere le altre cose costruite per le Olimpiadi: i due famosi stadi, quello di atletica-calcio (90.000 spettatori) e quello degli sport acquatici (17.000), anch’essi progettati da studi internazionali e costruiti in circa 4 anni. Sono lì fianco a fianco, uno in forma di "Nido" e l’altro di "Bolle di sapone", un grumo di schiuma forzato a formare un parallelepipedo, un miracolo di ingegneria.
Chiamo un taxi e mostro all’autista la foto che ho scaricato da Internet e stampato. Lui sorride e si avvia: dal modo come procede capisco che conosce benissimo il luogo: chissà quante volte ci  ha portato gente. Di quando in quando si volta e annuisce, con un’aria tra il soddisfatto e il fiero, sembra dire: sei venuto anche tu fin dall’Italia a vedere, eh?.
Ha ragione di essere fiero: i due edifici, fiancheggiati da quello che probabilmente è il vero e proprio futuro architettonico della struttura grattacielo, sono di straordinaria suggestività. E mentre l’autista li circumnaviga lentamente, mi rendo conto che non lo fa soltanto per darmi l’agio di guardarli bene: va piano perché siamo inglobati in un autentico corteo di auto cariche di visitatori.
Rallentano, si fermano, i cinesi scendono e fotografano tutto con grande e rumoroso entusiasmo, ripartono, si fermano di nuovo: un’immensa festa di paese nel più vasto dei paesi. Tutti mi guardano e tutti hanno la stessa espressione dell’autista.
Hai fatto bene a venire, sembrano dire: questi edifici significano che siamo finalmente un Grande Paese, e, soprattutto, un Paese Nuovo. Qui e adesso comincia la Nuova Cina. I due grandi stadi e i circostanti grattacieli (come minimo con strutture a torciglione) non si possono però ancora visitare: si può soltanto guardarli da lontano, al di là di un interminabile perimetro di pali metallici presidiati ogni venti o trenta metri da un impassibile soldatino dallo sguardo vigile.
Troppe Olimpiadi sono state funestate da eventi sgradevoli se non tragici, e i cinesi non vogliono correre rischi. Quindi, fatti alcuni giri in auto attorno all’enorme complesso e scattato un adeguato numero di foto, decido di andare a vedere un altro pezzo di Nuova Cina. Che però ha un intenso profumo di antico.

Ne ho avvistato i prodromi l’anno scorso. Volevo andare a comperare il solito tè verde e qualche indumento tradizionale nel vecchio, popolarissimo mercato di Qian Men, appena sotto piazza Tien An Men. Un brulicante labirinto di bancarelle, cianfrusaglie, grida, richiami, contrattazioni, imbrogli, fumi, odori buoni e cattivi, veri e propri fetori (di toilette pubblica). Una tappa obbligata delle mie ormai molte visite a Pechino. Non l’ho più trovata.
 Un’altra interminabile palizzata la nascondeva alla vista dei curiosi. Migliaia di curiosi, molti più di quanto ne affluissero un tempo. La palizzata reggeva coloratissimi cartelloni che preannunciavano il futuro del quartiere: un risanamento completo del marcescente e malsano complesso di stamberghe per riportarlo alla gloria di un tempo, quando era il ricco centro commerciale dell’impenetrabile Città Proibita degli imperatori.
Le illustrazioni raffiguravano edifici  a pagoda, ponticelli, civettuoli corsi d’acqua, eleganti tram. Volevo vedere se questi strani tipi di cinesi erano riusciti a completare anche questa immane opera di risanamento in meno di un anno.

No, non ce l’hanno fatta (e forse non rientrava nei loro piani): i cartelloni sono ancora lì, con le loro garrule e vivaci rappresentazioni. Ma la folla dei visitatori è cresciuta in ragione quasi geometrica, una vera e propria folla. Facendo pazientemente la coda e resistendo a gomitate, pestoni e spintoni, si riesce ad avvicinarsi a qualcuna delle fessure aperte chissà come piegando la lamiera che regge i dipinti. Al di là, il nuovo quartiere si delinea ordinatissimo, i palazzi finiti, eleganti nelle loro strutture esotiche, sono già molti, diversi i ponticelli, c’è persino un tram, parcheggiato sulle rotaie in attesa di mettersi a viaggiare. Tutto molto bello, ad onta delle nostalgie passatiste di chi versa lacrime di coccodrillo sulla scomparsa di quartieri  spacciati per tipici e invece soltanto fatiscenti e malsani, dove per altro non andrebbe mai ad abitare - dicasi per esempio certe nostre degradate periferie - e anzi esulterebbe se fossero abbattuti e risanati. Qui sì e là no? Oh bella.
Ma il famoso aeroporto nuovo? C’è, c’è, ne parleremo presto...

Mario Biondi


(1 - continua)

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