Covid, cinque mesi in ospedale
«In coma, mi ricordo due porte»

Lurate Caccivio Mauro Puricelli, odontotecnico di 59 anni, ripercorre il suo calvario «Devo la vita a medici e infermieri»

Cinque mesi e cinque giorni interminabili lontano da casa, per sconfiggere il Covid e le sue pesanti conseguenze. Il calvario vissuto da Mauro Puricelli – odontotecnico di 59 anni – e dalla sua famiglia che ha sofferto con lui e per lui.

Ha cominciato ad avere i primi sintomi il 6 marzo con un banale mal di testa. Il giorno dopo ha accusato una grande stanchezza alla quale è subentrata la febbre.

«Da lì è iniziata tutta l’escalation – racconta Puricelli – Nonostante gli antibiotici la situazione non migliorava e anzi si era aggiunta la tosse. Da giovedì 12 marzo (quando il medico di base, Giovanna Valsecchi, lo aveva visitato) a sabato 14 la situazione è precipitata, tanto che il mio medico ha disposto il ricovero all’ospedale Sant’Anna. È stato tutto così rapido da non riuscire neanche a salutare i miei cari».

Dal pronto soccorso, dopo l’esito del tampone positivo, è stato trasferito al reparto dei malati Covid in via di dimissione.

«Avevo il nasello e l’ossigeno – prosegue Puricelli, che non aveva patologie pregresse – Ho cominciato a sentire una crescente spossatezza. Quando è emerso che l’ossigenazione continuava ad abbassarsi, sono stato trasferito al primo piano. Mi hanno messo prono con la maschera dell’ossigeno e una sorta di cuscino sotto il petto per aiutare la respirazione. Sono rimasto così una notte, ma continuavo a peggiorare. Da lì sono passato al casco per un giorno e il 26 marzo in terapia intensiva».

«Ho telefonato a mio fratello Sandro e gli ho detto “Non so se ci rivedremo” e gli ho raccomandato di stare vicino a mia moglie e a mio figlio nel caso non ne fossi uscito».

Nei giorni precedenti aveva scritto il testamento, nella drammatica consapevolezza di essere all’inizio di un tunnel forse senza uscita. È stato intubato e sedato. Un intero mese senza coscienza, poi un altro mese e mezzo di cure intensive ma vigile.

«Durante il coma farmacologico per due volte mi hanno ripreso per i capelli – prosegue Puricelli – Non so se sia stata autosuggestione, ma ho sognato molto e avuto ripetuti incubi. Ricordo in particolare di aver visto mia madre, che è deceduta. Sono arrivato da lei dove c’erano due porte, in quella di sinistra c’era lei e in quella di destra nessuno. Mi ha detto “devi scegliere” e istintivamente sono andato verso quella di destra, che rappresentava la rinascita. Quando sono stato svegliato dal coma all’inizio ho fatto fatica a capire quale fosse la realtà, se quella oggettiva o dei miei incubi».

Al risveglio, prima di Pasqua, una prova terribile.

«Ho avuto un trauma perché, a causa di una atrofia muscolare, ero completamente paralizzato, muovevo solo leggermente le dita della mano destra – aggiunge Puricelli – Avendomi fatto la tracheotomia l’8 aprile, non potevo neanche parlare. Ero così sconvolto e disperato che ho pregato il Signore di farmi morire».

«Ho avuto attacchi di panico - conclude Puricelli - Ricordo in particolare una sera in cui al culmine di una crisi respiratoria l’infermiera Angela si è avvicinata, mi ha messo la mano sul petto e mi ha parlato in modo così pacato da rasserenarmi. La forza che non riuscivo a trovare in me stesso me l’hanno data medici e infermieri, veri angeli, che mi dicevano di stare tranquillo, perché era una condizione momentanea e che avrei recuperato. Da solo non ce l’avrei mai fatta. Devo a loro la vita».

(Manuela Clerici)

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