«Io, comasco trapiantato in Cina
Così sconfiggeremo il coronavirus»

Intervista ad Alessandro Galimberti, 30 anni, cresciuto ad Albate. Oggi vive nella megalopoli di Wenzhou, non lontano dall’epicentro del contagio: «Qui le regole sono molto severe»

«In Cina sono state adottate misure durissime, ma hanno funzionato e il contagio, che in una realtà così densamente popolata avrebbe potuto essere devastante, è stato contenuto: non so se in Italia è chiaro che la mancanza di rispetto delle regole da parte di uno solo vanifica il sacrificio di tanti».

È questa la testimonianza di Alessandro Galimberti, comasco originario di Albate, classe 1990, che da cinque anni vive e lavora in Cina, dove era andato per motivi di studio e dove ha trovato l’amore e un lavoro.

Galimberti, lei dove si trova esattamente e di cosa si occupa?

Io, mia moglie e mia figlia di due anni abitiamo ora a Wenzhou, una città con più di 9 milioni di abitanti, la terza più popolosa della provincia dello Zheijiang, confinante con la provincia dello Hubei, dove è nato il contagio da Covid-19. La città è molto nota in Italia perché da qui provengono la maggior parte dei cinesi emigrata nel nostro paese. Anche i miei suoceri erano venuti in Italia, dove è nata mia moglie poi tornata in Cina per studiare la lingua: all’università ci siamo conosciuti e poi sposati. Successivamente la mia vita è rimasta qui, anche perché la famiglia di mia moglie ha diverse attività, in particolar modo nei settori della produzione di energia e nell’alberghiero. Noi ci muoviamo quindi in diverse zone della Cina, per seguire differenti business. Ma ultimamente ci trovavamo a Wenzhou per gestire un hotel.

Cosa è successo quando ha iniziato a diffondersi l’epidemia?

Prima abbiamo visto un comportamento molto disciplinato da parte delle persone: tutte hanno iniziato a mettere la mascherina, anche senza imposizioni, e a rispettare la distanza e le altre norme per prevenire il contagio. Poi, dal 22 gennaio, è scattata la chiusura totale e la nostra vita è cambiata

Come sono state attuate nella vostra città le procedure di lotta al contagio?

La città è stata suddivisa in tanti settori, che sono stati completamente chiusi con l’ausilio di barriere. Ogni strada aveva un unico punto di accesso, pattugliato ventiquattr’ore al giorno. Ogni quartiere aveva un responsabile, autorizzato a rilasciare i permessi per uscire dalla via esclusivamente per ragioni di stretta necessità, ossia per la spesa. Il permesso aveva una durata di due ore, poteva essere utilizzato da un solo membro della famiglia e al massimo ogni due giorni: quando uscivamo, quando arrivavamo al supermarket e quando rientravamo in casa, veniva sempre registrato l’orario. Non rispettare i tempi o uscire senza motivo equivaleva ad essere arrestato o comunque ad essere perseguito penalmente. Sono state immediatamente chiuse tutte le attività non essenziali e le persone si sono adeguate. I permessi venivano distribuiti nelle varie ore della giornata, in modo tale che al supermarket non fossero presenti assembramenti.

Quanto è durato tutto questo?

Per tre settimane complete sono state in vigore queste misure severissime. Poi la situazione è iniziata a cambiare, ma con gradualità e con piccolissimi passi in avanti, giorno per giorno. L’apertura rispetto alle restrizioni dipende molto anche dalla giurisdizione delle singole città e dall’andamento dell’epidemia.

In Italia si continua a parlare di come avverrà la riapertura dopo questa fase di emergenza.

Quale è stata la vostra esperienza?

Tutto sta avvenendo molto lentamente. In questo momento, i cittadini della nostra città si sono dovuti dotare di una app che permette la registrazione di tutti i dati delle persone e di tutti i movimenti. Per muoversi e per entrare in qualsiasi luogo pubblico è necessario mostrare la app che segnala se il cittadino proviene da una zona salva.

Cosa è una zona salva?

Si tratta di un territorio, più o meno grande, dove non si registrano nuovi contagi da due settimane. Le zone salve sono chiuse e vengono allargate man mano che altri territori possono affermare aver superato l’epidemia. A volte il governo della città è anche tornato indietro e, dopo aver aperto una zona, se ci sono stati troppi movimenti difficili da controllare, ha di nuovo richiuso. Noi ora ci troviamo in una zona salva e ci possiamo muovere liberamente all’interno di questo territorio. Se ci spostiamo da qui, dobbiamo mostrare la app e non possiamo comunque andare dove la situazione non è ancora risolta.

Nella vostra zona salva, la vita ha ripreso normalmente?

Le attività sono riprese ma, rispetto a prima, è cambiato tutto. La sensazione che viviamo è quella di un nemico che è stato vinto ma che è sempre dietro l’angolo. Per questo i ristoranti hanno riaperto, ma le persone per entrare si devono registrare e devono restare a distanza: viene occupato un tavolo ogni quattro. E così è per il resto della nostra vita: i nostri parenti vengono a trovarci, ma ritengono più prudente non fermarsi a pranzo.

Il vostro hotel ha riaperto?

No, siamo ancora chiusi. Del resto avrebbe poco senso aprire, visto che non può esserci movimento dall’esterno. Le persone che devono necessariamente muoversi all’interno della Cina oppure che provengono da altre parti del mondo sono sottoposte ad una rigida quarantena prima di potersi muovere nelle città. Numerosi hotel vengono ora utilizzati come luoghi per le quarantene, anche perché tanti cinesi stanno ritornando in patria.

Per quale motivo?

Prima di tutto perché spesso hanno perso il lavoro che avevano in Europa o altrove, a causa degli effetti dell’epidemia. E poi perché si sentono più sicuri qui in Cina, dove il contagio è stato contenuto con misure rigorose.

Cosa vi aspettate per il prossimo futuro?

Non facciamo progetti, viviamo giorno per giorno cercando di rispettare scrupolosamente le regole, sapendo che solo così sconfiggeremo definitivamente questo virus. Sappiamo però che ci vorranno moltissimo tempo e grande prudenza, perché nelle città la densità di popolazione è elevatissima e la possibilità che sfugga qualcosa e nascano nuovi focolai è sempre presente. Siamo ancora molto lontani dalla vita di prima e ci torneremo solo per gradi.

Secondo lei, la Cina ha risposto in modo efficace a questa epidemia?

I conti li faremo alla fine, quando tutto sarà finito. Io posso solo dire quello che ho visto: da quando è stata decretata la quarantena, le persone hanno obbedito e sono rimaste a casa. È stato difficile per tutti, ma il popolo cinese ha capito che era l’unica soluzione. Quando sento la mia famiglia in Italia o leggo le discussioni che si fanno nel nostro paese, mi chiedo se gli italiani abbiano davvero capito. È brutto dirlo, ma forse scendere in strada per far uscire il cane non è una necessità: in una situazione di totale emergenza, ci si può attrezzare anche per sopravvivere con il cane in casa. Credo che in Italia ci siano troppe persone in giro e troppi che chiedono di riaprire: l’esperienza cinese dice che, se si riapre prima che la situazione sia sotto controllo, in realtà si trascina la fase acuta per più tempo. Nonostante le critiche che ha ricevuto, credo che la Cina abbia fatto e stia facendo ancora enormi sacrifici per tutelare i suoi cittadini e per evitare la diffusione del virus nel mondo.

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