La sfida Yoox e Re Carlo: una vita da innovatore

L’intervista Federico Marchetti, l’imprenditore visionario che ha portato la moda online si racconta e lancia un messaggio di fiducia in particolare ai giovani italiani: «Potete farcela, senza andare all’estero e senza essere raccomandati»

Un libro pieno di storie di vita vissuta, non una celebrazione di sé, non un manuale di business. Federico Marchetti, l’imprenditore visionario che con Yoox è riuscito a portare per la prima volta la moda su Internet e che ha scelto di vivere sul lago di Como nel piccolo borgo di Campo di Lenno, si racconta in “Le avventure di un innovatore”, scritto per Longanesi con la giornalista Daniela Hamaui.

Il fine dichiarato è trasmettere coraggio ai giovani che sognano di cambiare le cose e magari hanno un buon progetto, ma pensano che in Italia non ci siano le condizioni per farcela perché qui - lo stabilisce il pensiero comune - se non hai una buona raccomandazione in tasca, è inutile anche provarci. E invece si può fare, si può fare anche qui e lo dimostra la storia personale di Marchetti che ha raggiunto il successo partendo da zero, in una famiglia della piccola borghesia della profonda provincia italiana.

Nel libro, c’è tutta la parabola umana e professionale di Marchetti, dal fenomeno Yoox all’impegno di oggi al servizio di re Carlo d’Inghilterra per la transizione della moda verso la sostenibilità, attraverso mille episodi e aneddoti.

“Le avventure di un innovatore”. Il titolo richiama una dimensione narrativa. C’è una ragione precisa?

Il libro è un contenitore di storie, alcune surreali, alcune divertenti, altre ancora più serie; ci sono aneddoti, pensieri. Il titolo “avventure” perché non è il solito libro in cui la vita del protagonista è tutto un successo, dove tutto è meraviglioso. Non ho omesso gli errori, anche i fallimenti. Non è un’autobiografia per celebrarsi e non è nemmeno un manuale di business con una lezione da impartire. Una sintesi perfetta l’ha fatta Giorgio Armani nella prefazione, in una paginetta c’è tutto il significato del progetto (“penso che il solo modo di trasmettere alle nuove generazioni il senso dell’impegno e il gusto del rischio, oltre all’importanza dell’immaginazione, sia il proprio esempio di vita”).

Qual è il messaggio rivolto ai giovani?

È un momento in cui mi pare che i ragazzi, in particolare quelli italiani, siano un po’ scoraggiati, un po’ impauriti da tutto quello che sta succedendo nel mondo. C’è questo senso di incertezza che grava sul futuro e molti si chiedono se davvero oggi si possa fare qualcosa in questo Paese, nonostante il contesto complesso e senza essere raccomandati. Io non intendo certo propormi come un modello di riferimento, vorrei però dire ai giovani che sì, si può ancora farcela anche qui. La mia è la storia di un ragazzo partito da zero, nella profonda provincia italiana, in una città meravigliosa ma piccola come Ravenna, in una famiglia oggettivamente molto complicata. Una famiglia piccolo borghese, in casa c’erano due sole camere, una era occupata da mio fratello e io fino a tredici anni sono stato con i miei genitori. Il primo capitolo mi è costato una grande fatica interiore, ma serviva a far capire che tutti, compreso un ragazzo svantaggiato qual ero io, possono realizzare il proprio sogno.

Il sogno dei ragazzi è però molto spesso quello di andare lontano da casa.

Non è necessario per forza andare all’estero e ciò che più mi conforta è il gran numero di messaggi meravigliosi da giovani che dimostrano di avere colto il messaggio del libro. Uno mi ha scritto di avere trovato la forza di licenziarsi dalla Coca Cola per buttarsi in un progetto meraviglioso. E un genitore mi ha detto di avere messo il libro nella borsa del figlio universitario affinché trovi un po’ di coraggio.

Lei si è laureato con 110 e lode alla Bocconi, ma dal libro non si ricava l’idea di un secchione. Qual è stato il suo segreto?

Non credo di essere mai stato particolarmente intelligente, avevo una strategia e ho cercato di insegnarla anche a mia figlia che ha 12 anni. Concentrare gli sforzi all’inizio per crearsi una buona reputazione è fondamentale: se nei primi tre esami prendi trenta, alla fine segni un percorso, orienti le successive valutazioni.

Va bene avere un buon progetto, ma poi l’imprenditore ha l’onere di tradurre le idee in realtà.

Vero, c’è una profonda differenza tra la figura dell’inventore e quella dell’imprenditore innovatore. Io penso che tra la formulazione di un’idea e la sua realizzazione, sia quest’ultima la parte più importante ed è anche la parte più difficile perché non si può pensare di farcela da soli ma occorre trovare il sostegno di persone illuminate come è capitato a me. E poi bisogna imparare ad affrontare le avversità. Non bisogna scoraggiarsi mai, gli imprenditori sono chiamati ad affrontare problemi tutti i giorni, fa la differenza il come e in quanto tempo si trovano le soluzioni. Quando sono partito, nel 2000, non c’era niente a livello di commercio online e può immaginare le difficoltà quando è scoppiata la bolla di Internet e avevo appena fondato Yoox. Poi ci sono state le Torri Gemelle. E ancora il crac di Lehman nell’anno in cui ci siamo quotati. Ne abbiamo attraversate davvero tante di vicissitudini poco piacevoli, ma io credo che il compito di un buon imprenditore sia quello di guardare sempre avanti analizzando la situazione in una prospettiva di lungo termine, non limitarsi cioè a considerare le trimestrali ma avere un orizzonte di almeno cinque anni. Sono convinto che guardando nel lungo uno riesca a posizionarsi meglio anche nel breve, se tu hai un’idea del futuro riesci a capire quali sono i posti gusti per mettere a terra le idee che hai nel presente.

E i fallimenti?

Ci sono stati, i fallimenti fanno parte dell’innovazione. A me ha sempre aiutato tanto cercare di mettermi sempre dalla parte del consumatore, considerarmi una sorta di cliente zero anziché l’amministratore delegato della società.

Come è stato l’avvio di Yoox?

La realizzazione del progetto è stata, in particolare nella parte iniziale, entusiasmante. Eravamo una squadra quasi anarchica, il gruppo era un insieme di tanta diversità, c’era la filosofa insieme al grafico, l’ingegnere insieme al punk in magazzino. L’inizio è stato davvero come uno si immagina una startup all’americana. Tutto molto variopinto, tutti molto appassionati e credo che questa sia stata una componente fondamentale per il successo. Siamo stati i primi al mondo a vendere la moda su Internet e la sfida era percepita da tanti come una missione impossibile. Passione e senso di appartenenza della squadra sono stati decisivi perché hanno fatto in modo che tutti dessero il massimo. La squadra è stata il mio vero fiore all’occhiello, ero innamorato del gruppo di persone con cui lavoravo. Si partiva da zero e non avevo certo la possibilità di assumere super manager o professionisti con grandi percorsi di carriera alle spalle, così ho scelto le persone più per la personalità, per il loro desiderio di cambiare il mondo, per la passione di fare una cosa che si profilava come una grande sfida.

Nel libro racconta di diversi segnali rivelatori sulla bontà del progetto. Il più curioso, forse è un ordine di sette paia di scarpe Miu Miu da un convento di suore di clausura.

Ci sono stati diversi accadimenti rivelatori, elementi che gli inglesi direbbero di “serendipity”. Il primissimo risale al 1999, mi trovavo nel mio appartamentino a Milano, dopo una giornata in un ufficio nel quale non ero contento di lavorare. Bene, mi trovavo lì, infelice del lavoro che stavo facendo, quando mi sono messo a cercare una parola adatta a rappresentare il progetto che avevo in testa di mettere insieme la moda con la tecnologia. Così è venuto fuori Yoox, una parola che associa i cromosomi uomo-donna, l’umanesimo con la tecnologia, lo zero che è anche un codice binario. Poi scrivo yoox.com e trovo il registro libero e lo registro per, se non ricordo male, 6 dollari. Ho scoperto in seguito che trovare una parola di senso compiuto con quattro lettere con la terminazione .com era, nel 1999, di una probabilità su un milione. Quindi il primo segnale che le cose potevano andare nel verso giusto è stato questo. Poi, e veniamo a un altro segnale di serendipità, pochi mesi dopo l’apertura subiamo un grosso furto di materiale in Inghilterra, ma riusciamo a recuperare tutto grazie a una trappola messa a punto con Scotland Yard: mandiamo un pacco finto e riusciamo a risalire al magazzino con i capi rubati. E poi, venendo al curioso ordine di cui mi parlava, dopo qualche mese di attività ci è arrivato un ordine di 7-8 paia di scarpe di Miu Miu da parte di un convento di suore di clausura, “sì certo - ci siamo detti - la moda non è sempre ostentazione”, ma certo era una richiesta singolare, un altro segnale dall’alto, diciamo così, che mi ha fatto capire di essere sulla strada giusta.

Quanto ha pesato nel suo successo il fattore fortuna?

C’è stata tantissima fortuna nella mia storia, ma mi sono trovato nelle situazioni giuste per cogliere la fortuna e ho rischiato grosso, non può immaginare quante volte. Molte volte mi è andata bene, qualche volta no.

Nel libro sottolinea l’importanza del fattore tempo.

Il timing nel fare le cose è un aspetto fondamentale. Il successo è fatto anche di coincidenze e dietro ogni storia c’è spesso un pizzico di magia e molte sliding doors. Ho fondato Yoox poco prima dello scoppio della bolla di Internet. Ho colto l’attimo e ho ottenuto i soldi all’ultimo momento disponibile: se avessi aspettato anche solo quindici giorni non avrei avuto un’altra possibilità.

E il timing è stato importante anche quando ha deciso di chiudere dopo ventuno anni l’esperienza di Yoox?

Sì, sono uscito, secondo me, nel momento giusto, un momento in cui tutto era al massimo e quindi la mia azienda, che nel frattempo si era ingrandita con l’acquisizione Net-A-Porter, era leader assoluto dell’e-commerce di moda. In un’impresa è molto importante l’avvio, ma è anche molto importante l’uscita di scena. Ho voluto gestire le cose nel migliore dei modi a tutela degli azionisti, dei collaboratori, dei fornitori, dei clienti. Dopo che Yoox Net-A-Porter è stata comprata dal gruppo Richemont Cartier nel 2018, ho parlato con il chairman e gli ho detto “Johann, guarda che io sono un imprenditore, non un manager e quindi arriverò alla fine del mio contratto, nel luglio del 2021, facendo il massimo, anzi addirittura di più di quel che ho fatto fino ad adesso, però dopo non contare su di me. L’azienda è ormai grande, fa quasi 3 miliardi e ha 5mila dipendenti, io all’interno del tuo gruppo diventerei un manager, profilo che non ho e che non intendo assumere”. Bene, ci siamo stretti la mano e da lì è iniziato tutto il processo di successione, frenato dall’emergenza della pandemia, ma alla fine compiuto, credo, in modo ottimale.

Ed è iniziato il lavoro sulla transizione ecologica della moda.

Mi sono trovato nel luglio del 2021, dopo ventuno anni di intenso lavoro, e a quel punto mi sono detto “è un po’ troppo presto, a neanche cinquant’anni, per andare in pensione” e ho concluso che la cosa migliore fosse mettere la mia esperienza al servizio di una buona causa. L’ambiente e il cambiamento climatico sono la principale emergenza, non solo perché ho una figlia di 12 anni e vorrei lasciarle un mondo migliore rispetto a quello che la mia generazione ha rovinato, ma anche perché il tema ha un tale rilievo che tutti sono chiamati a dare un contributo per cercare di migliorare la situazione. Così come in passato ho accompagnato tutti i principali brand della moda sulla strada dell’e-commerce, ora la sfida è diventata portarli per mano sul terreno della sostenibilità ambientale attraverso quella che resta la mia arma segreta, ovvero l’innovazione che è l’unico strumento per cambiare davvero le cose.

E si può mettere insieme business e sostenibilità?

La sfida è consentire alle aziende di continuare ad avere come obiettivi la crescita e il profitto senza che questo significhi inquinare il pianeta. È una questione di cui, come noto, mi sto occupando al servizio di sua maestà, il re d’Inghilterra. A volte, quando mia figlia mi chiede quale sia il mio lavoro, risponde scherzando, come James Bond, che “lavoro per la corona britannica con la missione di salvare il pianeta”.

Qual è uno dei progetti più significativi che avete sviluppato?

Una delle azioni che ha implementato la task force che presiedo è il passaporto digitale per ogni capo di abbigliamento, uno strumento che consente al consumatore, attraverso lo smartphone, di conoscere vita, morte e miracoli di ogni singolo pezzo. Come e dove è stato prodotto, con quali materiali, in quali condizioni sociali si trovano i lavoratori che lo hanno realizzato, ma anche come può essere riparato o riciclato. Allungare la vita dei prodotti è uno dei temi chiave della sostenibilità. Inquini moltissimo se scegli il fast fashion; inquini poco, forse zero, se usi un vestito fatto bene, magari in Italia, e che ti dura non meno di dieci anni. Il vero problema della moda è l’usa e getta, un modello di business non sostenibile, frutto di un consumismo all’ennesima potenza che genera tra l’altro un vero e proprio paradosso: il 40% dei capi acquistati non viene mai indossato. Costano così poco che uno finisce per comprarli, ma li lascia nell’armadio e non li indossa neppure una volta.

In prospettiva l’industria del tessile-abbigliamento dovrà produrre meno?

Più che produrre di meno, bisogna produrre in maniera diversa e grazie all’innovazione questo è possibile. Pensiamo ai materiali, un progetto di cui sono orgoglioso è quello che la Giorgio Armani Spa (Marchetti è l’unico membro del board estraneo alla famiglia, ndr) sta portando avanti in Puglia con l’obiettivo di riportare, dopo sessant’anni, la coltivazione del cotone. È un esempio di vera innovazione, scienziati ed esperti internazionali sono stati coinvolti con l’obiettivo di sviluppare un agricoltura rigenerativa, senza l’uso di sostanze chimiche, capace di assicurare un prodotto di qualità altissima e rispettoso dell’ambiente.

Veniamo al lago di Como, l’ambiente che lei ha scelto per stabilire la sua principale residenza.

La mia famiglia si è innamorata di Campo di Lenno, abbiamo cercato di inserirci nella comunità, mia figlia ha frequentato l’asilo locale e mia moglie è andata ad insegnare inglese, ovviamente pro bono, ai bambini. Sono stati anni molto belli e mi piace sottolineare il valore della collaborazione tra pubblico e privati che ha portato alla riqualificazione di tutta l’area di Campo di Lenno, la piazzetta è stata pedonalizzata e i bambini, durante l’estate, sono tornati a giocare in strada in sicurezza. Anche questo progetto, nel suo piccolo, è sostenibilità ed è frutto di un’amministrazione illuminata che ha saputo far leva sulle risorse anche dei privati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA