Sequestro Mazzotti, il testimone: «Fu un’azione a viso scoperto»

Eupilio Carlo Galli la notte del rapimento stava riportando a casa Cristina e l’amica in Mini. Il racconto di quei tragici eventi. «Fui chiamato a Milano per il confronto, che è durato a lungo»

Gente spietata, dura, feroce, professionisti del crimine furono i quattro banditi che la notte del primo luglio 1975 sarebbero stati i rapitori di Cristina Mazzotti sulla strada tra Longone al Segrino e Galliano. I loro nomi sono stati resi noti dalla Procura di Milano che ha concluso le indagini con l’avviso di garanzia: una storia durata 47 anni. Tra i presunti sequestratori figura Giuseppe Morabito di Africo Nuovo che fu considerato il numero uno della ‘ndrangheta, secondo solo a Bernardo Provenzano capo di Cosa Nostra.

Non è sorpreso della riconosciuta grandezza criminale dei sequestratori Carlo Galli, il “ragazzo” che quella sera era alla guida della Mini Minor che stava portando a casa Cristina Mazzotti e l’amica del cuore Emanuela Luisari, nella villa Mazzotti a Galliano.

«Sono ben a conoscenza della loro spietatezza anche se ormai sono passati tanti anni ricordo benissimo - racconta Carlo Galli, 69 anni, abitate in un paese del Lario- perché subimmo veramente la loro malvagità, la loro crudeltà. Ho avuto paura. Per Cristina purtroppo fu l’inizio della sua morte».

Erano incappucciati?

«No erano a viso scoperto. Anche ultimamente mi hanno chiamato a Milano per il confronto. C’erano due pubblici ministeri. Il confronto è durato a lungo».

Quella sera, dunque?

«Partimmo senza fretta dal Bar Bosisio di Erba. era una bella serata d’estate, l’aria era tiepida e dispiaceva un po’ ritirarsi. Però le ragazze, soprattutto Cristina insistettero. Salimmo sulla mia “Minor”, partimmo per Galliano. Lungo il rettilineo di Longone, mi accorsi che un’auto, una Giulia, mi stava seguendo da Erba, ma non mi preoccupai. Cristina che era seduta al mio fianco non si accorse. Al bivio prendemmo per Galliano. Lungo il rettifilo in salita che porta al Beldosso, la Giulia che ci seguiva improvvisamente ci superò e si mise di traverso sulla strada. Fui costretto a bloccare».

E poi cosa è successo?

«Sul lato sinistro c’era ferma una 125 Fiat scura. Da un cespuglio che ora non c’è più, uscirono uomini armati, non incappucciati che si avvicinarono di corsa alla nostra auto, uno aprì la portiera e ci ordinò di metterci tutti e tre sul sedile posteriore. Ubbidimmo terrorizzati. Cristina era dietro l’autista io in mezzo. Eravamo spaventatissimi, le ragazze piangevano. L’auto correva, noi eravamo obbligati sotto la minaccia della pistola che ci puntava il passeggero, a stare completamente accucciati onde non farci vedere dove stavamo andando. Io però ogni tanto cercavo di alzare il capo e guardare fuori ma più volte quello davanti mi picchiò il calcio della pistola sulla testa, obbligandomi a “stare giù”».

Come poi emerse dalle indagini il viaggio durò forse più di un’ora. La “Mini Minor” giunse ad Appiano Gentile e attraversò completamente la pineta.

«Nell’oscurità degli alberi folti l’auto si bloccò, un individuo uscito dal buio si avvicinò alla nostra auto che aveva le portiere aperte e con voce perentoria chiese chi era Cristina Mazzotti.

“Sono io”, rispose sicura Cristina. L’afferrarono, le infilarono una federa in testa e la trascinarono giù portandola verso un’auto che mi accorsi era ferma, forse era la stessa 125 scura, ma non sono sicuro».

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