“Giuseppi” e la lunga
rincorsa verso il Colle

E tutto d’un tratto il Conte. “Sarà un 2019 bellissimo”, disse quando ancora faceva la parte del pupazzo Rockfeller nelle mani dei ventriloqui Di Maio e Salvini. Con ogni probabilità aveva in tasca un oroscopo in cui si prevedeva che di lì a poco dalla crisalide del semi sconosciuto avvocato di provincia sarebbe spuntato il “Giuseppi” collocato da Donald Trump sulla ribalta della politica non solo italiana. Da lì in poi, fateci caso, il premier dei due governi di colore diverso non ha sbagliato una mossa.

Più che uscire dal cono d’ombra dei suoi ingombranti ma malaccorti secondi, ha buttato fuori loro. Del primo, Salvini, ha sfruttato il delirio di onnipotenza agostano, dell’altro, Giggino nostro Di Maio, l’inadeguatezza. E soprattutto, Conte, ha capito che pur camminando su un filo, quest’ultimo è di solido acciaio, forgiato dal timore dell’ “addavenì Matteo” e dal rischio di perdere le agognate poltrone parlamentari da parte dei peones Cinque Stelle. Riusciranno le manovre in atto da Fioramonti a Paragone, alle trame tessute dall’altro Matteo, quello toscano, invero meno spavaldo dopo i recenti scandali e il motore del suo nuovo partito che fa fatica a salire di giri, a spezzare la corda su cui passeggia il governo? Lo scopriremo solo vivendo e presto. In questo gennaio irto di trappoline e trappolone per la brancaleonica armata giallorossa: dalla riforma della prescrizione, al caso autostrade che come spesso capita dalle nostra parti da tragedia sta scolorando in una brutta farsa, alla decisione sul taglio dei parlamentari che influirà non poco sulle scelte di chi cerca di non perdere i privilegi a cui si è aggrappato e, ci mancherebbe, alle elezioni in Emilia che ci diranno se la leadership del Pd è salda o solo un castello di carte. Pd che sembra anch’esso aggrappato a Giuseppi non fosse altro per agevolare la polverizzazione degli alleati grilli e spartirsi, assieme ai due Mattei le spoglie elettorali. Quale miglior cavallo di Troia potrebbe essere Giuseppe che in fondo è una creatura scaturita dalle alchimie del cagliostrico laboratorio della Casaleggio & C.? Forse il prezzo di questo patto cinico e spregiudicato sulla pelle tenera di Giggino e soci potrebbe addirittura prevedere per Giuseppi una gita settennale sul colle più alto della politica: quel Quirinale che tra due anni, nel febbraio del 2022, sarà lasciato libero da Sergio Mattarella. Quel “non sarò un Cincinnato e resterò in politica” pronunciato da Conte in una recente intervista sta suonando nelle orecchie di tanti. In primis coloro, capitanati da Salvini, che non vedono l’ora di rimandare il presidente del Consiglio ad occuparsi in altre faccende, ma anche dai tanti che siedono in tribuna a fare un tifo da ultras per questo governo e soprattutto per questa maggioranza, nella speranza che resista fino alle elezioni a camere unificate e possa servire da base per coronare il loro sogno presidenziale. I nomi? Sono tanti: da Prodi, a Enrico Letta a Veltroni e così via. C’è però da fare i conti (plurale) con tante incognite. Magari anche la legge, non sempre applicata negli ultimi tempi, dell’alternanza sulla poltrona più importante del Paese tra un cattolico e un laico. In questo senso il concorrente più terribile di Conte potrebbe essere quel Mario Draghi, trasferito dalla salvifica (per l’Italia) guida della Bce al plotone delle “riserve della Repubblica”. Dalla sua il prestigioso economista ha il vasto e trasversale consenso di cui godrebbe, dall’altra, e in conseguenza di ciò, il fatto di entrare Papa in conclave con il concreto rischio di uscirne ancora con la porpora indosso. Conte poi dalla sua, ha la capacità, che sta dimostrando, di essere un formidabile tessitore. Una virtù che l’ha più volte sostenuto negli ultimi mesi ogni qual volta il suo governo ha vacillato. Insomma un osso duro questo “Giuseppi” sempre in piedi. Chi se lo sarebbe aspettato neppure un anno fa quando per la prima fece capolino nelle trattative per la nascita del poi defunto prematuramente esecutivo gialloverde.

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